Alzheimer, la malattia del Novecento

di Bruni Alessandro

Maria ha 62 anni e 5 anni fa le è stato diagnosticato l’Alzheimer. In questi anni è molto cambiata. Ora ha problemi di memoria, linguaggio, movimento e coordinazione: non è più autonoma nel vestirsi, lavarsi, nutrirsi. È tornata bambina. Lettura, scrittura e tutte le attività ricreative sono state abbandonate, così come gli interessi e le passioni che aveva. La personalità di Maria va in frantumi e con essa tutta la sua vita personale e di relazione.
L’Alzheimer è una patologia scoperta da Alois Alzheimer ai primi del Novecento (1907). Ci vollero molti anni perché questa demenza fosse riconosciuta sul piano clinico soprattutto sotto la spinta della sua esplosione epidemiologica.
Nella seconda metà del Novecento fu riconosciuta come malattia grave e misteriosa che determinava negli stadi conclamati la formazione nel cervello di placche amiloidi e di proteina tau, con perdita di neuroni e compromissione del microglia (cellule di difesa immunitaria). Rimaneva, allora come oggi, non chiaro come le placche si formassero prima dei sintomi cognitivi.
Dalla fine degli anni ’80 il quadro clinico diviene più chiaro e complicato. Per uno screening precoce dell’Alzheimer si sono dimostrate inadeguate le indagini sul liquor cervicale (invasiva e di difficile replicabilità), la PET (costosa e difficilmente eseguibile di massa), dubbi si sono avuti con l’esame della retina per la presenza di proteina tau (ha funzionato bene sui topi e non sull’uomo). Verso la fine del Novecento sotto la pressione epidemica si provò, invano, di elaborare un test ematico predittivo.
L’Alzheimer va distinta in due fasi: una prima fase presintomatica, che può durare tra i 15 e i 25 anni, durante la quale l’amiloide si accumula nella corteccia cerebrale, e una seconda fase in cui nella corteccia si formano grovigli di proteina tau e inizia il processo neurodegenerativo, con l’emergere di disfunzioni cognitive man mano che le cellule cerebrali muoiono.
Dal morbo non si può guarire, ma alcuni farmaci inibitori possono migliorare almeno in parte i sintomi cognitivi, funzionali e comportamentali del malato. La speranza viene dalle sperimentazioni in una nuova classe di farmaci che rimuovono l’amiloide: una sorta di vaccini che ne favoriscono la rimozione.
Per individuare tempestivamente un deterioramento cognitivo, sono utili due test, che vengono svolti a distanza di tempo. Un test neuropsicologico, il mini-mental test, con domande e grafici che serve a valutare con una certa affidabilità lo stato neuro-cognitivo e funzionale di un paziente.
Questo test, associato a esami clinici strumentali, permette di anticipare di 5-10 anni la diagnosi. Un secondo presidio è costituito da protocolli di miglioramento sintomatico con la terapia occupazionale che aiuta il malato a rimanere attivo fisicamente e mentalmente. Un dato certo, acquisito con la cosiddetta riserva cognitiva, è che nelle persone attive intellettualmente il rischio di Alzheimer cala di due o tre volte.
Molti ricercatori, dal 1980 a oggi, demoralizzati dai fallimenti delle nuove terapie farmacologiche sintomatiche, sono passati a studiare i fattori di rischio genico. Solo nel 1993 fu stabilito un nesso tra Alzheimer e gene APOE e a questo si è aggiunto un nuovo sospettato il TREM2, uno dei geni delle cellule microgliali. Questi studi hanno confermato il potenziale ruolo protettivo della microglia contro gli effetti tossici dell’amiloide. La microglia sembra dunque proteggere dalla diffusione della proteina tau nella corteccia cerebrale che caratterizza il primo stadio dell’Alzheimer. Le cellule della microglia potrebbero essere un valido bersaglio terapeutico contro questa devastante malattia nata nel Novecento che ancora ci accompagna con tutto il suo mistero.
Concludendo, i meccanismi di malattia e i protocolli di terapia non sono ancora chiari, ma i numeri sono quelli di un’epidemia: i pazienti nel mondo sono più di 40 milioni, mentre in Italia sono almeno 700.000. Questi numeri determinano un problema sanitario mondiale enorme, tanto da scoraggiare molte industrie farmaceutiche a continuare le ricerche, a causa del grande costo a fronte di piccoli risultati. Essendo l’Alzheimer un morbo di impatto epidemico mondiale, che coinvolge pazienti spesso ancora attivi e molte persone altrimenti socialmente utili, il problema non può essere lasciato alle famiglie o alla sanità pubblica di emergenza: occorre un potente intervento di medicina di territorio dedicato. Un malato di Alzheimer può vivere inattivo nel declino cognitivo per 20-30 anni, con un impegno familiare e sociale devastante. Nel Nord Italia il costo medio annuo per paziente è stimato di 41.000 (con punte di 93.000) euro, di cui il 79,5% è costituito dal costo dell’assistenza informale familiare e il 20,5% dall’assistenza retribuita sanitaria. Un problema che il Novecento ci lascia e che il Duemila non vorrebbe accollarsi.

Alessandro Bruni

biologo farmaceutico, già preside della facoltà di farmacia dell’università di Ferrara

componente la redazione di madrugada.
info: madrugada.macondo@gmail.com