Vaccinarsi tutti i giorni
contro l’oblio
Far di tutte le erbe un fascio
I no-vax non sono la stessa cosa dei no-pass. Far confusione è uno sbaglio che sta costando caro. Da questa confusione – prodotta dal rigorismo del governo Draghi e moltiplicata da una “informazione governativa”, per convinzione o per pigrizia – trova alimento il fuoco della confusa protesta che percorre le piazze italiane.
Non faccio parte né dell’una dell’altra schiera, sono vaccinato, un vaccinato convinto, ma ho bene in mente la differenza che passa tra no-vax e no-pass.
I no-vax sono un’esigua minoranza di pazzi pericolosi, dediti alle più fantasiose filosofie e cure alternative che mettono a repentaglio la vita dei loro stessi figli. Ricordate la cura Di Bella.
I no-pass sono invece alcuni milioni di italiani “non convinti”. Che rifiutano l’obbligo del green pass (un obbligo vaccinale sotto mentite spoglie) per diversi motivi: perché non accettano il diktat dello Stato sulla propria libertà di scelta, perché ritengono che i vaccini oggi in uso non siano sufficientemente testati (e almeno su questo un po’ di ragione è dalla loro parte), perché gli altri governi europei hanno fatto scelte differenti e ugualmente efficaci, perché pensano che siamo già alle soglie della “immunità di gregge”, perché hanno semplicemente paura di vaccinarsi.
Si può discutere sulla fondatezza delle obiezioni dei no-pass – io credo che il vaccino sia in ogni caso l’unica strada efficace per vincere la pandemia – ma non si deve demonizzare chi contesta l’obbligo del green pass.
Le manifestazioni spontanee, l’incrudelirsi del confronto, la tensione sociale che cresce non nascono da sole. Sono in buona parte il risultato di questo errore di fondo.
Se nella confusione rispunta il fascismo
La confusione, il moto di piazza, la sommossa. C’è forse un posto migliore per un gruppo di provocatori (organizzati militarmente) per rompere, distruggere, incendiare? Lo scriveva Manzoni, ma Draghi e il ministro Lamorgese se lo sono sicuramente dimenticati. Eccesso o delirio di onnipotenza. Così a Roma, in mezzo a migliaia di pacifici manifestanti no-pass, i militanti dell’organizzazione neofascista Forza Nuova hanno messo a ferro e fuoco la sede storica della Cgil (un luogo simbolo) per poi dare l’assalto al pronto soccorso dell’ospedale Umberto I.
Ordine Nuovo, il tristemente noto movimento di estrema destra, fu sciolto ufficialmente nel 1973, dopo che i suoi dirigenti subirono pesanti condanne per «ricostituzione del disciolto Partito Nazionale Fascista». Oggi, dopo innumerevoli episodi di violenza squadrista, si chiede a gran voce che Forza Nuova e Casa Pound subiscano la stessa sorte. Se il ministro dell’Interno ne deciderà lo scioglimento ufficiale, sarà sempre troppo tardi. Non per questo il virus del fascismo sarà debellato. Per fronteggiarlo, la democrazia italiana dovrà vaccinarsi tutti i giorni.
Piccoli equivoci senza rimedio
30 agosto, RaiNews24: «Ci sono anche 9 bambini tra le vittime».
È il bilancio dell’ultimo raid americano in Afghanistan alla vigilia del ritiro definitivo del suo esercito di occupazione.
Altre vittime innocenti (ma quali sarebbero le vittime colpevoli?) nei giorni precedenti la dead line. Altre, tante, non sapremo mai esattamente quante, nel passato e nel prossimo futuro: in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria…
La guerra a distanza, la “smart war”, non sembra per nulla intelligente. Oppure (eppure) per i comandi militari e le potenti lobbies delle armi lo è moltissimo. La più cinica e crudele di tutte le guerre dalla clava in poi.
Per i governi e i vertici militari, però, è sempre e solo «uno sbaglio». Quando (cioè sempre), assieme al terrorista, il drone ammazza una cifra variabile di uomini, donne e bambini, si tratta di uno spiacevole errore di calcolo, un effetto collaterale. Un piccolo equivoco senza importanza. E senza rimedio.
Molto di più di una figuraccia
31 agosto. Vedere Joe Biden su tutti gli schermi del mondo mentire e contraddirsi, cercare di difendersi (senza successo) per il disastro combinato in Afghanistan è stato uno spettacolo pietoso. E istruttivo. Questa volta quella americana non passerà agli annali come una “figuraccia”, ma come una totale, rovinosa, colpevole sconfitta. Che riesce a far impallidire perfino la scioccante avventura in Vietnam. E che non riguarda solo il precipitoso quanto improvvido ritiro delle truppe degli ultimi mesi o settimane, ma l’atto finale di una storia che era già tutta scritta dal principio, dalla folle reazione americana al folle attentato alle Torri Gemelle.
Se è vero che è la quantità di sangue versato l’unico vero metro per misurare la “grandezza” di una sconfitta, allora la tragedia di Kabul può aspirare ai libri di storia: il sangue inutile dei soldati (anche i soldati italiani) mandati a fondare in Afghanistan uno “Stato democratico”. Sbarcavano dall’aereo le loro bare coperte dalle bandiere, li chiamavano eroi, mentre erano solo povere vittime. Vittime dell’ideologia tardo-imperialista e di una strategia fallimentare dettata dai governi e dai comandi militari dell’Occidente.
E il fiume di sangue di Kabul crocifissa. Il terrore di un popolo illuso per anni e oggi lasciato solo. Il terrore davanti alla sicura vendetta talebana (altro che nuovi talebani moderati), la corsa inutile verso l’aeroporto, i manifestanti uccisi a fucilate, le donne chiuse in casa aspettando la morte o un sicuro destino di schiave.
La fila dei ciechi
La storia è solo questa: abbiamo sbagliato tutto, punto e a capo.
Molti ora lo hanno capito e (Biden a parte) lo ammettono pubblicamente. Perfino l’Europa, la più fedele alleata, l’eterna gregaria, prende le distanze dal presidente americano. Dice Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri: «Quello che è accaduto in Afghanistan solleva molte questioni sull’impegno occidentale e su quanto siamo stati in grado di raggiungere».
La gloriosa missione – «Anche se c’è da chiedersi se fosse una missione» dice ancora Borrell – è quella di sempre. Da quasi un secolo l’America è il “Paese Guida” dell’Occidente. Lo Sbarco in Normandia e in Sicilia, i soldati americani che regalano cioccolata e sigarette, il Piano Marshall, la Guerra Fredda e il Patto Atlantico, infine la Nato che ha riempito l’Italia e l’Europa di basi militari e missili atomici. Il tutto condito con un rosario di guerre e di missioni di pace in giro per il mondo. A che scopo? Per una gloriosa missione, solo e soltanto con il nobile fine di «esportare la democrazia».
In tanti hanno creduto a questa storiella (chiamatela pure storytelling). Oggi, dopo il disastro afgano – la guerra di Bush, l’occupazione militare del Paese durata vent’anni, la fuga ingloriosa – la storia sembra davvero finita.
L’Europa e l’Italia hanno sempre obbedito, sempre dietro alla Grande America, in ordinata fila indiana. E proprio come nella Parabola dei ciechi (lo straordinario dipinto di Pieter Bruegel) sono finiti nello stesso buco.
Chi ha lasciato solo Mimmo Lucano
La condanna in primo grado a 13 anni e 2 mesi di Mimmo Lucano ha spaccato in due l’Italia. Esattamente come era successo quando il modello di solidarietà che il sindaco di Riace aveva applicato nel suo paese era stato interrotto dall’intervento dell’allora ministro dell’interno Matteo Salvini e dall’operazione “Xenia” avviata della Procura di Locri.
Una sentenza assurda, abnorme, punitiva (la stessa pubblica accusa aveva proposto una condanna a “soli” 7 anni e 11 mesi) che oggi assume un valore politico generale, centrodestra e centrosinistra hanno già incrociato le armi. Un valore (e un clamore) quindi che travalica la grande ingiustizia di cui è stato vittima l’uomo Mimmo Lucano. Se infatti l’ex sindaco e il “modello Riace” erano diventati il simbolo che poteva esistere una via solidale per affrontare il tema delle migliaia di migranti che continuano ad arrivare in Italia, la sentenza suona come un secca smentita di quel modello. E insieme uno schiaffo a tutte le donne e gli uomini che in tutta Italia si impegnano nell’accoglienza e nella solidarietà.
Io però mi sono fatto, e vorrei fare a voi, due domande imbarazzanti: perché Mimmo Lucano è stato “punito” così duramente? quale clima ha reso possibile questa condanna? Mentre il centrosinistra governava nel governo Conte 2, e oggi nel governo Draghi, la legislazione e la normativa in tema di immigrazione – quella rigida e sbagliata del decreto Minniti, poi incrudelita dalla Lega dei “respingimenti” – è rimasta più o meno quella di prima.
Per non turbare gli equilibri – ma ecco la versione ufficiale: «il momento non è favorevole» – né il Pd né nessun altro ha voluto aprire una pagina nuova nella gestione dei flussi immigratori, dell’accoglienza, della cittadinanza.
Nessuno partito si è battuto seriamente per riaprire la via dell’immigrazione legale. Nessuno si è impuntato sulla ius soli. Macché, solo parole. Quelle di Bersani. Quelle di Renzi (sicuro, c’era anche nel suo programma). Quelle di Enrico Letta 1, effimero presidente del Consiglio. Fino a quelle di Enrico Letta 2, novello segretario del partito.
Ma il clima “distratto” non riguarda solo i partiti. Anche la stampa mainstream e i canali televisivi si sono stancati di immigrati e di accoglienza.
E infine ci siamo tutti noi. Quel grande movimento che alcuni anni fa aveva alzato la voce, oggi, già prima dell’avvento del Covid, sembra disperso in mille rivoli, muto, incapace di farsi sentire. La battaglia in nome dell’accoglienza, dei diritti umani, della solidarietà, dei bambini “tutti italiani” si è persa per strada.
Poteva, doveva, essere una spina nel fianco, un pungolo per ottenere risposte concrete dalla politica e dal parlamento. Così non è stato.
E la politica si è occupata d’altro.
Venezia e il silenzio di un grande scrittore
«E adesso?» «Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova».
«E questa?».
«Questa è finita».
«Finita, finita?».
«Finita, finita».
«La scriverà qualcuno?».
«Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provare un sentimento».
Sono le ultime righe di Atlante occidentale (Einaudi, 1985), il secondo romanzo, forse il più bello, di Daniele Del Giudice. Ora la storia dovrà scriverla qualcun’altro; Daniele è morto povero, nella sua amata Venezia, il 2 settembre scorso, dopo un silenzio durato più di dieci anni. Appena qualche mese fa, un suo amico mi diceva che lo visitava regolarmente nella clinica dove era ricoverato, anche se Daniele «non c’era più», colpito dal 2010 da demenza precoce non poteva riconoscerlo.
Da tanto tempo Daniele Del Giudice aveva finito le parole, e chissà quante cose meravigliose avrebbe potuto ancora scrivere.
Peccato che la morte di uno scrittore, forse l’unico grande scrittore italiano dopo Italo Calvino, sia passata quasi sotto silenzio.
Qualche necrologio di maniera, un paio di articoli sulle pagine culturali, un buffo Premio Campiello alla carriera (che non ha fatto in tempo a ritirare), davvero troppo poco per un autore che ci ha consegnato una scrittura lucida, levigata, inconfondibile, così legata agli oggetti del mondo e così orfana di un mondo difficile da decifrare. Una scrittura appollaiata lassù, nel piccolo aeroplano di Daniele, gli occhi a scrutare la Terra dall’alto, i pensieri e le azioni degli uomini e il sentimento che li faceva vivere.