Un lavoro sostenibile per uno sviluppo sostenibile

di Gandini Andrea

Una sfida enorme

L’Italia ha di fronte a sé nei prossimi mesi una sfida enorme ma anche un’occasione irrepetibile per rilanciarsi come Paese, grazie soprattutto alle imponenti risorse provenienti dall’Europa. I rischi sono due: a) investire in settori “sbagliati” 1 ; b) non riuscire a completare i lavori. Ciò che da molti decenni blocca il nostro Paese: non riusciamo “a fare” le cose. Abbiamo fatto il Ponte Morandi a Genova (anche perché Renzo Piano ha regalato il progetto), ma c’è un canale scolmatore a Genova che aspetta di essere concluso da… 12 anni 2 . Nelle imprese ci sono i tecnologi che realizzano le idee e i progetti (e un imprenditore che sollecita), ma nella nostra politica e amministrazione (sia di sinistra che di destra) non c’è nessuno (manca il management). Tutti hanno osannato Mario Draghi quando ha detto che «bisogna inserire i giovani al lavoro e puntare su di essi anche perché saranno loro a pagare il debito». Ma dal giorno dopo si è passati a parlare di altro. Eppure ci sono sperimentazioni consolidate negli ultimi decenni, che hanno dimostrato che la “leva” fondamentale per il rilancio è quella di inserire i giovani (e le donne) al lavoro con modalità innovative, in grado di utilizzare al massimo le potenzialità di crescita delle imprese e l’interesse allo sviluppo e alla valorizzazione del lavoro da parte dei giovani stessi. Il governo ha cercato di difendere il lavoro che c’è, ma bisogna creare anche lavoro ex novo. Il lavoro non può essere un effetto residuale dei provvedimenti economici, ma deve essere la finalità primaria. Altrimenti la ripresa non fermerà declino e disuguaglianza sociale.

Competenze per creare sviluppo

I progetti nelle “6 aree” di cui si parla dovrebbero essere misurati sulla base di quanto lavoro si genera (che è il primo indicatore di sviluppo sostenibile) sia nelle imprese esistenti che nelle nuove imprese che nasceranno. Un conto sono i necessari provvedimenti di emergenza che “ristorano” le produzioni in crisi, un conto lo sviluppo che crea nuove produzioni e servizi. Individuati i settori principali, deve essere però data l’opportunità a tutti gli imprenditori di svilupparsi, dalla cui abilità e responsabilità sociale non si può prescindere (non siamo più ai tempi della pianificazione sovietica). Laddove, oltre alla disponibilità dei necessari ammortizzatori sociali, sono stati sperimentati nuovi percorsi di transizione dallo studio al lavoro a forte contenuto formativo, con una stretta integrazione tra i nuovi inserimenti e le uscite degli anziani con trasferimento di competenze senior-junior e con il supporto di una gestione funzionale degli orari di lavoro in termini di durata individuale (redistribuzione del monte ore complessivo tra gli occupati) e di modalità di partecipazione individuale (part time degli anziani in uscita, recupero di collaborazioni esterne), non solo si sono aperti spazi di lavoro per i giovani ma si è creato ulteriore lavoro per tutti, in un contesto di innovazione nelle imprese e per il paese. Tra le tante combinazioni che potranno essere proposte e implementate, mi preme insistere su un segmento in particolare che può favorire la creazione di quell’ambiente completo di strumenti e procedure, essenziale almeno nella fase di ripartenza quando più sentita è l’esigenza di sostenere la domanda di lavoro nelle aziende esistenti: accompagnare i nuovi ngressi con part-time in uscita negli ultimi anni di lavoro (metà pensione, metà lavoro). Part-time sostenuti economicamente, in cambio di attività formativa rivolta ai nuovi entranti. Quindi, non giovani contro vecchi (o viceversa) ma competenze che vengono trasferite dai più esperti ai meno esperti. Ci sono stati in passato esempi di questo tipo in alcuni processi di riorganizzazione sia di imprese private che di enti pubblici. E hanno funzionato positivamente, valorizzando e stabilizzando il nuovo lavoro. Tra vent’anni i 65enni saranno i nuovi 55enni, la vita si allunga e migliori condizioni di salute consentono di lavorare per più anni se il peso del lavoro negli ultimi anni di vita si riduce (part-time anziché tempo pieno) proprio per rendere la qualità della vita e del lavoro migliore. Ne parla il piano francese di Next Generation presentato a settembre, peccato che nulla si dica nel nostro (e siamo a gennaio).

Salute, assistenza e infrastrutture

Un altro campo di investimento è quello della salute degli anziani che, oltre l’età di lavoro, crescono di numero, cresce nel tempo la loro fragilità e necessitano di maggiore aiuto. A partire dai loro bisogni e delle loro famiglie va trasformato il welfare della salute e dell’assistenza. Gli anziani rappresentano un campo di investimento per l’innovazione, su cui l’Italia domani (in un mondo ricco che invecchia) può mettere a punto e condividere con altri Paesi metodologie, tecnologie, servizi e nuova qualità delle professioni anche in tale campo. Così dovrà essere per le nuove infrastrutture (stradali, ferroviarie, telematiche), che dovranno tener conto della rigenerazione non solo delle città ma di un territorio sempre più polarizzato che necessita di riqualificare le periferie e recuperare i borghi, i centri minori e le aree interne. Non è solo necessario mobilitare gli ingegneri (dei trasporti, delle strade, delle comunicazioni) ma anche architetti, urbanisti, sociologi e antropologi per ridisegnare le nostre città e il territorio in forma più inclusiva. o sviluppo sostenibile c’è se si basa sul “lavoro sostenibile”. Difficile immaginare che la struttura produttiva e dei servizi che c’era prima della mega crisi diventi automaticamente più sostenibile (ambientalmente, socialmente, economicamente) se non si impiegano nuove risorse, nuove competenze, nuove sensibilità, nuove culture. In un titolo: occorre un Piano del lavoro sostenibile se si vuole creare uno sviluppo sostenibile. Anche sugli immigrati si può e si deve fare di più: la prima questione non è quale accoglienza ma quale integrazione garantire a un flusso che deve essere programmato e legale (com’è stato fino al 2012), dando così piena cittadinanza con scuola e lavoro che sono (negli ultimi secoli) gli unici veicoli per una vera cittadinanza. Per questo occorre, insieme all’accoglienza, garantire un percorso di inserimento lavorativo a flussi programmati nei settori che lo richiedono, dando così un contributo allo sviluppo perché la crisi demografica ci impone di avere immigrati regolari ed è dimostrato che alcune lavorazioni vivono solo se hanno un mix di lavoro straniero (spesso non qualificato) e di lavoro specializzato che fa anche formazione. Queste considerazioni qui proposte sono frutto di un’ampia e prolungata sperimentazione su programmi regionali e ministeriali sviluppatasi soprattutto nel ferrarese che ha coinvolto il Petrolchimico, uno dei primi costruiti in Europa e con il suo famoso Centro Ricerche “Giulio Natta”, e l’Università, in cui si è avuta l’opportunità di sperimentare modalità organizzative originali nei percorsi di formazione e lavoro in progetti in collaborazione particolarmente significativi 3 . Ma altre buone pratiche dal basso esistono in questo Paese che aspettano di essere valorizzate per il bene comune. Se non ora, quando?

Andrea Gandini

economista

già docente di economia aziendale, università di Ferrara, con la quale collabora per la transizione al lavoro dei laureandi