Topografia del paradiso

di

Nel paradiso dei calzini
Da un po’ di tempo mi sveglio presto, fa ancora buio, pensando al paradiso. Ai paradisi
impossibili, o a quelli immaginabili: quindi possibili. Nella nostra testa il paradiso è il principio e la fine. Prima, quando ancora non c’eravamo, e abitavamo Eden, il giardino delle delizie. E dopo tutto, dopo il pianto dirotto di venire al mondo, dopo gli accidenti della vita, quando immaginiamo la pace di un qualche paradiso. La religione c’entra relativamente poco. Non sposta nulla che ci crediamo o meno. Tutti veniamo da un paradiso terrestre e ci nuotiamo in quel mare, dentro una pancia di donna. E tutti sogniamo la quiete dopo il casino, un tranquillo oblio: un paradiso in Terra o in cielo. Resta da vedere cosa troveremo – cosa vorremmo trovare – dall’altra parte.
Vinicio Capossela, non un cantautore qualsiasi, ha messo dentro a una canzone, Il paradiso dei calzini, tutto quanto nella vita si perde per strada, le cose che dimentichiamo, le persone che abbiamo amato e che non abbiamo più visto. Tutti i calzini – e i calzini siamo anche noi –, quelli che rimangono orfani, mutilati, feriti. Miracolosamente, in quel paradiso, tutti ritroveranno il bandolo del gomitolo, il calzino spaiato, la parte mancante
per tornare interi. Canta Vinicio Capossela:
Dove vanno a finire i calzini
Quando perdono i loro vicini?
Quelli a righe mischiati con quelli a pois
Dove vanno nessuno lo sa
Dove va chi rimane smarrito?
In un’alba d’albergo scordato
Chi è restato impigliato in un letto
Chi ha trovato richiuso il cassetto
Chi non ha mai trovato il compagno
Fabbricato soltanto nel sogno
Chi si è lasciato cadere sul fondo
Chi non ha mai trovato il ritorno
Nel paradiso dei calzini
Si ritrovano tutti vicini
Nel paradiso dei calzini
Non so se anche voi, almeno qualche volta, abbiate gridato (al vento): «Fermate il treno, voglio scendere». Voglio fermare questo momento. O almeno voglio ricordarmelo.
Magari me lo scrivo, faccio una foto. Beh, non funziona. E se è svanito nel blu, uscito
senza nemmeno salutare da una fessura della memoria, è davvero perduto per sempre?
Il paradiso dei calzini, sarà solo un’ipotesi, mi sembra una risposta perfetta.

Libri infiniti.
«Ho sempre immaginato il paradiso come una specie di biblioteca». La frase, bellissima e straniante, non poteva essere che sua: Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo, o più semplicemente Luis Borges, ha creato molti mondi fantastici, la biblioteca di Babele è uno dei più conosciuti. Là aveva immaginato trovassero posto (la planimetria della biblioteca era sconfinata quanto la fantasia creativa del suo autore) non solo tutti i libri editi in tutte le epoche, in ogni angolo di mondo, ma anche (e soprattutto) tutti i libri possibili o semplicemente immaginabili. Così, ad esempio, a Babele non c’era una sola Commedia di Dante, ma enne copie della Commedia, ognuna differente dalle altre per una sola lettera di una sola pagina.
Dante, dal suo canto, è stato l’inventore più grande, supremo architetto di una planimetria, complessa e minuziosa, dell’Altro Mondo.
Dopo averlo pensato, anzi, mentre lo pensava, Dante e Virgilio si sono messi in viaggio, percorrendolo tutto quel vasto universo, dal basso verso l’alto, fino alle ultime stelle. Fino in paradiso, appunto.
Prima e dopo Dante, gli uomini – assai più prolifici di Dio – hanno creato innumerevoli paradisi: l’Olimpo greco, il Walhalla vichingo, lo Janna mussulmano, lo Svarga induista (letteralmente luce del cielo) situato, così si tramanda, sulla cima del monte Meru. E naturalmente (per credenti e non credenti) il sol dell’avvenire, il comunismo, ora in gran disgrazia.
Poi i mille paradisi, perduti o ritrovati, dei poeti e narratori.
Personalmente il paradiso che più mi attira è quello di Borges: la sua infinità non mi spaventa: dall’altra parte ci sarà tempo per leggere TUTTO. Spero solo in una comoda poltroncina.

Il paradiso di Elios Mori.
Non riesco a spiegare chi era monsignor Elios Mori – era una persona immensa, come per Giuseppe Stoppiglia ci vorrebbe un libro per raccontarlo tutto – ma ricordo benissimo cosa ha detto una domenica mattina di tanti anni fa. Devo solo premettere una breve nota fisiognomica: Elios Mori era un omone grande, grosso, non bello, storto, occhialuto, trasandato nel vestire, nonostante fosse accudito da un manipolo di clarisse di clausura. Veleggiava come una nave un po’ in disarmo verso i settant’anni.
Quella domenica, forse era Pasqua o era appena passata, don Mori parlò del paradiso. Del “suo” paradiso, quello in cui credeva, di come lo immaginava. Disse più o meno così: Io in paradiso mica voglio andarci con questo corpaccio. Io in paradiso sono giovane e bello.
Sono agile, cammino veloce, anzi io in paradiso corro come un bambino.
Perché io in paradiso sono un bambino che gioca tutto il giorno. Io leggo tutti i libri del mondo. Io sono prete e sono sposato e ho dei figli: maschi e femmine. Sono uomo e sono anche donna.
Quel paradiso non me lo sono più dimenticato. Tutta la biologia era superata. E anche la storia. Nella vita ci troviamo continuamente davanti a un bivio, dobbiamo scegliere una strada e abbandonare l’altra: diventare pompiere o incendiario; anarchico o carabiniere; essere tutto, vivere tutte le identità, seguire tutti i desideri, vivere tutte le vite, amare dieci o cento uomini e cento donne.
Non so se credere al paradiso di Elios Mori, ma mi è sembrato un posto bellissimo. Un posto dove non ci si annoia mai. All’infinito.
Difetto di fabbrica Nel secolo breve qualcuno era convintissimo che, seguendo Cristo o Marx (ebrei entrambi), si poteva superare il sistema capitalista e abitare un mondo diverso e migliore. Dopo i noti, tragici e fallimentari tentativi, nel 1989 il capitalismo e il suo pensiero unico conquistarono l’intero orbe terracqueo, compresi i partiti di quella che continuiamo, per pigrizia, a chiamare sinistra.
Così, nel secolo presente – tranne sparuti gruppi di resistenti, delusi e (assai spesso) depressi – nessun partito, sindacato o movimento si sogna più di proporre la fatidica “fuoruscita dal capitalismo”. Perché oltre le Colonne d’Ercole ci sarebbe il vuoto. O il baratro. Chissà se è vero: Zingaretti, o chi per lui, dovrebbe salire su una barchetta, prendere il largo, fiutare il vento, alzare il naso verso l’orizzonte: non sarà la Terra Promessa, ma qualcosa di meglio laggiù deve esserci per forza.
Purtroppo il nostro orizzonte domestico, la nostra classe politica, non sembrano contare esploratori o capitani coraggiosi. Per molti il neo-neo-neo-capitalismo, se non “il migliore dei mondi possibili”, è comunque l’unico a nostra disposizione. Per altri, i riformisti di casa nostra, si tratterebbe solo di apportare qualche piccolo correttivo socialmente utile.
Nessuno dice la vera verità: che il capitalismo, vecchio o nuovo che sia, è un motore straordinario, il più potente mai inventato, ma ha un difetto di fabbrica. Ineliminabile.
Te ne accorgi solo quando vai a votare e capisci che il tuo voto non conta niente. Quando perdi il lavoro. Quando provi a chiedere un prestito in banca.

Francesco Monini

direttore responsabile di madrugada