Testimonianza di una caregiver / 1
Fern: «In quei giorni con mia madre, non sai quanto avrei voluto accelerare lo scorrere della morfina per rendere quel tempo di passaggio il più breve possibile!».
Swankie: «Forse, però, lei stava facendo di tutto per resistere e stare con te il più a lungo possibile!» 1 .
Un colpo al cuore nel sentire questo dialogo tra le protagoniste di Nomadland 2 , a cinque mesi da quando anch’io ho avuto lo stesso pensiero di Fern, accompagnando mia mamma nei suoi ultimi giorni. E un altro colpo al cuore, qualche giorno dopo, quando, ripensandoci, mi sono resa conto che se dovessi ritrovarmi in quella situazione, avrei ancora la stessa tentazione! Nell’ultimo anno e mezzo ho “accompagnato” due amici e mia mamma; esperienze con coinvolgimenti diversi, certo, ma tutte mi hanno interrogato fortemente su due cose. La prima, su quanto sia forte il mio senso egoistico di non volere vedere soffrire. La seconda, più importante, sulla dignità di una persona che non è più in grado di essere sé stessa, di esprimersi, di relazionarsi con i propri cari, con l’esterno. Fino a che limite si è, e ci si sente, ancora sé stessi? Il primo dei due amici, non ancora quarantenne, quando si rese conto che non sarebbe più riuscito a muoversi e a parlare, convocò me e i suoi genitori per concordare insieme una sorta di codice, in cui i pochi micromovimenti delle dita della mano che riusciva a fare avrebbero avuto un significato ben preciso. Lui ha resistito fino all’ultimo perché non voleva morire. Meglio, «lui non poteva morire» perché – mi confessò – la sua vita non aveva ancora dato frutti e quindi doveva prepararsi a con-vivere con la malattia che lo stava paralizzando giorno dopo giorno, fino a quando anche lui non avrebbe “portato frutto”.
Il secondo amico si è rifiutato di seguire la terapia del dolore fino a quando, sul letto d’ospedale, non ha potuto sottrarsi. Anche a costo di soffrire dolori atroci che lo costringevano a stare seduto immobile in una stessa posizione per giorni, non voleva assumere farmaci che lo avrebbero intontito e non gli avrebbero permesso di essere sé stesso, di pensare… di provare amore verso la sua compagna.
Mia mamma è stata silenziosa, aveva sempre detto che non avrebbe voluto disturbare nessuno e se n’è andata in punta di piedi in una notte di fine marzo, resa ancor più buia dal vuoto creato dal lockdown. Lei è stata docile alle cure: probabilmente l’ultimo periodo della malattia è stata una delle poche volte in cui qualcuno si è preso cura di lei. La sua ancora di appoggio è stata la fede: una nuova routine di preghiere e sante messe da guardare in tv, improvvisata e condivisa con mio papà; un nuovo modo per continuare a sentirsi madre, a preoccuparsi per i suoi cari.
E poi, in questo mio personale film, ci sono io! Io che per un qualsiasi inizio di dolore prendo il Ketodol, che ho già detto agli amici che se dovessi diventare incosciente «non la tirino lunga più di 48 ore!» perché non voglio soffrire…, ma che in queste situazioni ho scoperto di avere profonda razionalità, lucidità e fermezza. È un bene? Non ne sono così sicura! È stato un bene quando la lucidità mi ha aiutata nel dialogo con i medici, dove la parola d’ordine era «senza girarci troppo intorno, la situazione è fortemente compromessa». È stato un male quando la fermezza nel fare i conti con una prognosi infausta mi ha portato a scontrarmi con gli amici, o con mio papà, che volevano scandagliare il mondo per trovare il medico illuminato che avrebbe salvato la persona cara in fase terminale.
È stato un bene perché durante le lunghe notti di veglia la razionalità mi ha regalato la possibilità di dialoghi franchi e di senso sulla vita, sulle relazioni, sui valori… senza troppi compatimenti.
È stato un male perché vedere altri atteggiamenti, più accondiscendenti dei miei, mi faceva sentire spietata e senza cuore.
È stato un bene perché la forza d’animo mi ha permesso di fare il massimo per essere vicina a queste persone. È stato una male perché nell’onda delle cose da fare o da far trovare pronte, scandivo le relazioni con i miei tempi, non accorgendomi di tempi più lenti o di una sensibilità diversa della persona ammalata.
In tutto questo, ho pregato molto… Confesso che ho pregato poco perché accadesse il miracolo.
Ho pregato di più “per me”, cercando la luce della Parola, chiedendo la forza allo Spirito. Dovevo sentirmi egoista per questo?
Lucia Barbiero, esperta di comunicazione in ambito sociale
1 Citazione non letterale, perché il testo non è ancora disponibile.
2 Nomadland, film di Chloé Zhao con protagonista Frances McDormand, ha vinto il Leone d’oro alla 77a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, lo scorso 12 settembre 2020.