Testimonianza di un caregiver / 2
«È la notte tra il 5 e il 6 aprile. Dopo la telefonata ad Anna, e dopo aver applicato la terapia, una sensazione di leggerezza mi pervade. Mio padre ora dorme tranquillo. Prima ansimava paurosamente e mi sentivo incapace di prendere una decisione.
Quando gli ho dato la morfina, il suo sguardo era qualcosa di mai visto. Poteva voler dire “che fai?”, oppure “aiutami, fammi star meglio!”. Ora però dorme bene, non fatica più a respirare, sembra rilassato. Perché ho aspettato così tanto a praticare l’iniezione di cui il medico palliativista mi aveva già ampiamente parlato? Forse perché, in fondo, averlo qui, benché sofferente, mi dà l’impressione di poterlo trattenere con le mani, facendolo scappare dall’incontro con il suo destino. Come se, per un delirio di onnipotenza, avessi la convinzione di poter cambiare il corso della vita. Accettare le cure palliative, invece, significa aprire le mani, iniziare a lasciarlo andare, provare ad accettare l’idea che le cose finiscono e le persone muoiono. Che non siamo onnipotenti».
Queste righe, scritte 30 ore prima che mio padre morisse, sono rimaste là, su un foglietto, fino a ora. Scritte a caldo, testimoniano sia la drammaticità di un momento, sia una svolta. Ricordo bene l’angosciante solitudine di fronte a mio padre che si avvicinava alla fine. Medico e infermiera mi avevano chiesto qualche ora prima se me la sentivo di praticare l’iniezione di morfina a fronte di spasimi evidenti, o se preferivo l’uscita di un infermiere notturno. Mi sono fatto spiegare bene la procedura e ho risposto che me la sentivo. Ho risposto persino che avevo seguito un amico in fase terminale appena un anno prima, e mi sentivo pronto. Al che il medico mi aveva risposto con gentilezza che capiva, ma che un amico non è il proprio padre. Lì per lì non ho voluto credere a quelle parole. Ora sì.
Mio padre è morto in casa, come avrebbe voluto. Malato terminale in cure palliative da alcuni mesi, la sua salute è declinata rapidamente nel giro di dieci giorni. È morto durante il grande isolamento, che allora chiamavamo ancora in italiano, prima che qualcuno scegliesse che avremmo dovuto chiamarlo lockdown. Questo momento ha complicato e facilitato le cose.
Da un lato mi ha reso la vita un po’ più difficile. Mio fratello era bloccato in Brasile e mia sorella non poteva darmi il cambio, lavorando in ospedale. Il medico curante è stato sempre attento a farmi evitare rischi di contagio, vista la presenza in casa di altre due persone anziane. Fare la spesa era difficile. Cercavo di farmi trovare pronto all’apertura del negozio, sia per evitare il contagio, sia perché tutti in casa erano ancora a letto e potevo muovermi più facilmente.
Andare in farmacia era difficile. Non c’era ancora il plexiglass, e talvolta non usavano ancora la mascherina. Andare all’Ulss era difficile. I farmaci ormai arrivavano direttamente lì e dovevo prenotarli con un certo anticipo programmando l’improgrammabile. Muoversi era difficile, con il lasciapassare da compilare e la sensazione di non essere mai del tutto in regola. Ecco, forse è stato difficile non solo per la pandemia, ma perché mi mancava qualcuno che mi aiutasse a relativizzare le mie paure. Poi mio padre si è aggravato. Avrò fatto tutto il possibile? Se ci fossero stati altri ad affiancarmi, sarebbe andata diversamente? Avessi chiamato prima il medico in quell’occasione, fossi andato prima in farmacia quell’altra volta… Con l’aggravamento, tutto è cambiato. Gli infermieri domiciliari sono venuti due volte al giorno e l’accudimento è diventato condiviso, quasi come in ospedale.
Complicato e facilitato, dicevo. Da un altro punto di vista, infatti, l’isolamento ha regalato dei momenti di intimità familiare insperati. Il ritmo era rallentato, il silenzio totale. Le fabbriche spente, le strade deserte. Ogni mattina, aprendo le finestre, tortore e gazze passeggiavano beatamente sull’asfalto della provinciale davanti a casa. Si sentivano nuovamente e distintamente i rumori degli animali, come quando ero piccolo.
Come quando era piccolo mio padre. Certo, i parenti non potevano venire in visita, ma ne abbiamo approfittato per dedicarci completamente a lui, senza altre incombenze. Abbiamo curato il congedo. Mia madre ha passato ore intense accanto all’uomo col quale ha vissuto 57 anni. E mia zia ha iniziato a realizzare che suo fratello non ci sarebbe stato sempre per proteggerla. Con mio fratello e mia sorella ci sentivamo al telefono e l’aggiornamento era continuo. Io ero di fatto testimone privilegiato di quanto stava accadendo in casa. Mio padre se ne stava andando, come suo padre, come sua madre, nelle stanze che lui stesso aveva costruito. Tra le sue cose, i suoi odori, i suoni familiari, con i suoi ritmi.
Accudire un malato in maniera intensiva fa diventare accuditori. Se lo si fa anche formalmente, sembra che non abbiamo scelta e dobbiamo chiamarci caregiver. E sia. Quando un paziente sceglie di rimanere a casa, il caregiver arriva presto o tardi a fare i conti col fatto di essere solo. Certo, i medici e gli infermieri delle cure palliative ci sono sempre, reperibili anche di notte. Ma non sono in corridoio, pronti a intervenire per lenire le sofferenze del paziente e l’ansia del caregiver.
L’isolamento non ha fatto altro che amplificare questa solitudine. Una solitudine intensa, provata in vita solo in un’altra occasione. Una solitudine densa, forse. Una densità non solo paurosa, però.
Disponendo di un tempo liberato, di un ritrovato silenzio e di emozioni in presa diretta, questa solitudine può rappresentare l’occasione per dirci chi siamo, cosa siamo, cosa vorremmo essere ma non riusciamo. È una solitudine che spinge fino al fondo del proprio essere, là dove normalmente non si vorrebbe andare.
È un po’ come per il mito di Pandora. Se si apre il vaso, escono tutti i mali del mondo. La tentazione sarebbe di richiuderlo, terrorizzati.
Eppure, solo facendo i conti con tutto quel che esce e spaventa, come Pandora possiamo finalmente guardare il fondo di quel vaso. Per scoprire che non è affatto sgombro. Accucciata in un angolo, stremata ma non spenta, fa capolino la speranza.
Davide Lago, docente di pedagogia generale, ormatore in percorsi autobiografici