Storie ordinarie di (fine) vita
Lavorare in una RSA
Vivere sul ciglio delle emozioni nel chiederti perché si è lì e non in una pasticceria, tra il desiderio di affetto di ospiti che “ci sono ancora” e sono lasciati soli e tra ospiti che “non ci sono più” nel dolore di chi non può più accudirli. Vivere il burnout nel turno della notte quando sei sola e ti chiedi se quella è la vita che ti eri immaginata.
Il dolore individuale che si stempera nel dolore cosmico che da dubbio personale si trasforma in operatività alla chiamata di aiuto. L’operare tra il conflitto del tuo fare fisico tra pannoloni e sacche di cateteri e rispetto della persona che si sente abbandonata, che urla il suo dolore in silenzio, ora augurandosi la morte, ora affermando il suo diritto di vivere. E tu che vuoi continuare a pensare a casa, per non essere lì, che vuoi scacciare il logorante pensare alla morte. Ti dicono: l’hai scelto tu, io non l’avrei fatto! E così ti dichiarano la tua irrilevanza, non capiscono il “prendersi cura”, ma solo il lavoro fatto per essere pagati e dicono devi abituarti «a non vivere lì, ma solo a lavorarci». Non capiscono che la vocazione non è una grazia, ma una costruzione giornaliera, faticosa, per essere sé stessi, qualsiasi attività si svolga, fosse anche quella di una vuota-padelle come sono io.
La lenta discesa nell’oblio dell’Alzheimer della madre di mia figlia
Una figlia d’affetto che mi guida nella discesa dell’oblio di sua madre. I parenti avevano deciso che lei undicenne doveva seguire la madre demente, mica potevano permettersi una badante! Io, ignaro di tutto, apprendevo da lei bambina come prepararle il letto, come metterle il pannolone, come parlarle ogni qual volta era presa da rabbia, come asciugare la sua urina sotto la sedia mentre sta mangiando. Una bambina sola che faceva da badante alla madre in una minuscola casa: una bambina che giocava con la madre come fosse una bambola, che era impegnata nel tacere per non far risultare che i sussidi se li intascavano altri. Due vite segnate, ridotte all’essenziale della sopravvivenza e la mia abituata al superfluo a chiedersi perché. Infine, l’arrivo della morte che placa i tiranni e libera una bambina piena di rabbia che vuole la sua bambola, che non vuole affrontare la vita, un passerotto che non imparerà mai a volare. Un fine vita inutile, senza una resurrezione.
Ogni volta che lo guardavo, mi vedevo nel suo letto
Era una persona di silenziosa grande dignità ridotta nel letto dal Parkinson ad attendere una morte che non veniva. L’accendersi del compressore del letto da decubito ad aria a ricordare che era vivo, mai un lamento, ogni tanto uno sguardo vivido all’immagine di Padre Pio e alla amata Juventus. Lo conoscevamo da sempre, eppure non lo conoscevamo affatto. Una vita apparentemente insignificante: non sposato, rimasto solo in una grande casa cadente, con la pena dei nipoti impotenti ma sempre attenti. Vivere con la badante ucraina che con abilità e dedizione governava le sue giornate. Forse la sola donna della sua vita con la quale ha avuto una relazione. Mi guardava con gli occhi cerulei e parlava con la voce alterata non sempre comprensibile. Era pieno di pazienza e sopportazione in attesa di un epilogo che non arrivava e che eppure non voleva che arrivasse.
La mia rabbia in auto al ritorno a tentare di dare un senso a una vita apparentemente inutile, ma di fatto non sapevo ben decidere se fosse la sua o la mia.
Vivere da caregiver di mia madre al suono del campanello
Sapevo che prima o poi questo sarebbe accaduto.
È sempre stata una donna forte, più egocentrica che altruista, indipendente e volitiva. Aveva fatto la nonna efficiente ai miei figli, ma come lei diceva “a ore”, quando finiva il tempo programmato per la nonnitudine, esigeva il suo tempo di vita personale.
Sempre amata dalle nipoti per la cura della sua persona e lo spirito di indipendenza, sempre gelosa della sua casa pulita e ordinata, sempre attenta alle sue amiche di passeggiate sulle mura. Malgrado le nostre sollecitazioni a trasferirsi da noi si ostina a vivere da sola dopo la morte di mio padre. Il tempo la tradisce e le sue gambe non la reggono, dopo l’ennesima caduta si arrende e accetta di venire da noi, nel nostro “carcere”. La sua vita cambia e anche la nostra. La sua e la nostra autonomia vengono meno. Non si tratta di volersi o meno bene, ma di far collimare due esperienze di vita prima separate che ora devono incontrarsi. Lei è costretta a tenere al collo l’avvisatore acustico per chiamarci al bisogno e noi a vivere la nostra vita tra uno scampanio e l’altro. Un alto rischio di insoddisfazione reciproca, di scontro per calo di resilienza, di affermazioni di autonomia per dignità reciproca. Un affetto che si smargina, che sublima in un quotidiano complesso tra fisicità della fatica e psicologia di relazione in cui il dovuto diventa agito, in cui i sentimenti sono messi a prova e nasce, strisciante, il desiderio di vivere altrove.
Alessandro Bruni già preside alla facoltà di farmacia, università degli studi di Ferrara