Ripensarsi nella cura

di Realdi Giovanni

Giocando con la luce

«Al di fuori del mio ristretto ambito mi accorgo di un’epoca inconsapevole di limiti,

e insofferente. Si compiace di ambizioni e di affermazioni personali.

Il successo è considerato una conferma, mentre è solo il participio

passato del verbo succedere, verbo intransitivo e non addomesticabile».

[Erri De Luca]

«L’anestesista, che aveva scelto quella

professione perché non gli piacevano i

sentimenti e preferiva il silenzio alla parola,

le offrì ciò che desiderava, un antidolorifico».

[Antonia Susan Byatt]

Tre ritratti in bozza

Il colore dei capelli di Elisa sembra seguire il suo umore: talvolta lo diresti rosso, poi ritorna indeciso e gioca con la luce, come lei con le sue domande. Mi racconta del corso che sta seguendo, in una prestigiosa università del nordest. Si tratta di una disciplina importante, che il docente affronta parlando fitto in modalità online: più di cento ragazzi di cui si vede un pallino colorato nel rettangolo scuro. Così, per quasi quattro ore di seguito. Su sua accademica richiesta. Elisa si chiede se abbia senso; intanto segue, registra e poi trascrive – anche se gli appunti riproducono cose già dette, reperibili nei manuali o nelle dispense autoprodotte che si comprano in copisteria. Chi si prende cura di chi, o di cosa? Gabriele Salvatores ha l’occhio del fotografo, colui che coglie il momento di singolarità, non ripetibile. Coglie e raccoglie, nel film collettivo Fuori era primavera, migliaia di momenti dell’isolamento italiano del 2020, attraverso video inviati o interviste. Tra le molte immagini degli operatori sanitari, una donna spiega con consapevolezza e rigore i limiti della struttura in cui opera. La voce, stabile sino a pochi secondi prima, si incrina, quando ella torna ai familiari dei ricoverati, quindi si ferma, rotta, al pensiero dei malati morti senza poter salutare nessuno. Chi si prende cura di chi, o di cosa? La notiziola rimbalza tra i siti che accalappiano click. Un padre canadese, di fronte alla fatica del figlio di accettare e mostrare una vistosa voglia sul torso, si sottopone a trenta ore di operazione per replicare, con un tatuaggio indelebile, la macchia su di sé, proporzionata al torace adulto. Il figlio, felice e confuso, commenta: «Ogni volta che c’è papà posso togliermi la maglietta». Il padre: «Adesso avremo gli stessi segni per tutta la vita». Chi si prende cura di chi, o di cosa?

Adesso, la cura

Se leggi queste righe, aprendo il corrente numero di madrugada, stai galleggiando sopra uno dei molti cerchi concentrici che nascono da quel sasso gettato in acqua che è Macondo. Lo specchio liquido sembrava immobile, omogeneo, le cime vi si riflettevano replicando il proprio millenario, regale, profilo. Ora invece tremano, perdono continuità. L’associazione nasce e sopravvive per rompere le certezze, anche se affascinanti.Se leggi queste righe, ti stai ora rivolgendo a una questione di cura, e ciò accadrebbe anche qualora esse parlassero di vicende africane e di favelas, diritti e ingiustizie, emergenze attuali e figure luminose del passato, Dio e donna. Perché Macondo raccoglie, in questo tempo, il discorso polifonico sulla cura, per opporlo al linguaggio monotono del Mercato. Nell’ultimo ventennio abbiamo inseguito l’idea del cambiamento, i cui ultimi scampoli sopravvivono nella retorica del post-Covid. Contro i profeti dello scontro di civiltà, dalle Torri gemelle all’ISIS; contro il trauma di Genova 2001, riattizzandone le braci mai sopite; contro l’individualismo amorale berlusconiano e l’egoismo fascioleghista. Nello spirito di Porto Alegre, da Marcos ad Alves, da Malala a Greta, abbiamo rinnovato gli immaginari di rivoluzione. Ma quando, qualche anno fa, abbiamo visto scorrere in tv lo spot di una banca che mostrava folle di giovani entusiasti, come in un revival di Woodstock, che invitavano a «prender parte al cambiamento»; quando “rivoluzione” è stata poi catturata dalla campagna pubblicitaria di un nuovo operatore telefonico, ci siamo forse ricordati Giuseppe Stoppiglia che raccontava di come in alcune zone del Brasile “xerox” era dive-nuta la parola usata per “centro fotocopie”. Ci siamo ricordati che il mercato cannibalizza tutto, a partire dal linguaggio . E così, senza poter rinunciare al cambiamento, che rimane non detto, ne abbiamo raccolto il lato interno, intimo, che è la cura, il prendersi-cura-di. Il prossimo, evangelicamente inteso, è diventato lo spazio della muta rivoluzione: diminuire aritmeticamente il dolore del mondo, direbbe Camus.

Ragazzi testardi

Guardiamo ai frammenti in apertura accennati e immaginiamoli sottoposti allo sguardo pubblico e al conseguente dibattito “social”.Nel primo caso, ci si potrà chiedere quale sia il valore formativo, o persino culturale, di quelle lezioni. Predispongono a un sapere condiviso? Trasmettono una passione? La didattica on line è istruzione? È educativa? Eppure, si ribatterà, quel tal docente sta compiendo il suo dovere nelle condizioni possibili in questo frangente storico; forse prossimo alla pensione, si adopera con il massimo gli si possa chiedere. Al pari, si dirà, Elisa sta imparando un metodo attraverso il suo paziente lavoro: v’è dedizione e non rinuncia come per tanti suoi coetanei NEET. Tuttavia potrebbe percepirsi passiva, testimone superflua di un transito arido di dati. V’è cura? Di fronte al secondo quadro, ricorrente nella narrazione drammatica di questi mesi, qualcuno evocherà la categoria dell’eroismo, la dedizione e il sacrificio, e insieme il contesto depauperato in cui questa persona debba operare – la sanità pubblica sottoposta a decennali tagli, cioè uno Stato che non si prende cura dei suoi cittadini. Altri richiameranno per converso il senso del dovere preteso dai professionisti della salute, o del servizio pubblico in generale, magari contrapponendoli ad altri operatori per definizione nullafacenti, in quanto “statali”. Chi evidenzierà invece il momento della commozione, quando dietro al tecnico appare la donna, vorrà evocare l’umanità capace di non fermarsi al mero protocollo. Dove si colloca la cura? La vicenda del padre susciterà infine ulteriori discussioni: un vero gesto d’amore, diranno alcuni, rimarcando il dolore dell’ago o l’indelebilità del segno sulla pelle. Altri si chiederanno se quel gesto empatico possa costituire realmente un viatico per il figlio e la sua autonomia, o se invece si tratti di una forma di ipercura, funzionale piuttosto al narcisismo genitoriale. Dunque: dove sta la cura? I toni di questo scambio virtuale non saranno sconosciuti a chi frequenti i social network. Sono – si dirà – solo chiacchiere (c’è sempre un commento finale che chiude il gioco di ragazzi testardi in cui se uno dice sì l’altro dirà no per partito preso). Ciance che non dovrebbero poter mettere in discussione l’atto di cura. È sufficiente quindi disconnettersi e insistere nel proprio personale spazio di azione?

Di che cosa si parla quando si parla di “cura”?

Alcuni modelli emergono da questo sommario carotaggio. La cura viene letta, in primo luogo, come un compito delle istituzioni (scuola, servizio sanitario, ma anche Chiesa, terzo settore etc.): la ricezione dei diritti umani e del principio costituzionale dell’uguaglianza sostanziale comporta l’esistenza di strutture che hanno costruito nel tempo delle prassi, le quali si sono coagulate in protocolli. Dall’istituzione attendiamo un intervento, una ri-cetta, termini non a caso medici che scivolano negli altri ambiti quando venga identificato e catalogato il debole, lo svantaggiato, il discente, il malato. «I poveri li avete sempre con voi» (Mc. 14,7). Il bisognoso può essere anche oggetto di un altro modello, che potremmo chiamare personalista. Qui il movimento non è più, a prima vista, verticale (dall’alto dell’istituzione): mi prendo cura di te, al di là dei protocolli e anche delle norme se necessario. Tu in quanto studente che è soprattutto persona, ammalato che è soprattutto persona, parente del ricoverato che è soprattutto persona, e via così (per esempio, nel dibattito pubblico poi soffocato dal Covid, tu in quanto “migrante” che è soprattutto persona). Il piano sembra orizzontale, perché si stabilisce un contatto paritario, dove vada a riconoscere in te la medesima dignità di persona che mi riguarda. Un terzo modello possibile può essere detto terapeutico o relazionale. Sotteso già ai precedenti, si distingue perché porta in sé una intenzione salvifica: nella cura ti accompagno in una evoluzione, verso una liberazione, a una emancipazione costruttiva (o ricostruttiva) della tua identità, per esempio in quanto figlio o studente (oppure “tossicodipendente” – mentre scrivo si discute della serie Netflix su San Patrignano). Schematizzando drasticamente: v’è un asse verticale, chiamiamolo “asse del dovere”, che riguarda l’obbedienza a una norma, pubblica (la legge) o soggettiva (la morale), e che porta in sé il lato oscuro della spersonalizzazione (il tu rimane senza volto: è utente o persona) o della costrizione (il complesso ambito di chi non abbia potuto scegliere liberamente di prendersi cura di qualcuno, per esempio in famiglia, o di chi – donna – non veda garantito il lavoro dopo la maternità, o nel lockdown). Vi è poi un asse orizzontale, “del potere”, che comprende la capacità di intervento (essere in grado di curare, averne gli strumenti interiori e tecnici), ma ospita anche il lato oscuro del controllo, della dipendenza del debole o, per altri versi, dell’esaltazione del “salvatore”. Questo grafico cartesiano è forse arido. Consente tuttavia di mettere in evidenza come, nella scelta delle parole “social” per la cura, gli aspetti disfunzionali siano taciuti: prendersi cura è sempre una cosa bella, ammirevole, talvolta eroica. È comunque una prestazione, in cui chi cura è il baricentro, il debole è l’occasione. Fateci caso: qualcuno di voi conosce il nome di chi si è inventato l’abbraccio attraverso grandi fogli di plastica?

Narrazioni povere

La distanza fisica è necessaria al contenimento dell’epidemia. È l’ultimo episodio di una storia di lontananze, quelle tra gli individui-atomi che il sistema mercantile preserva (e incoraggia), perché insegue il target: i nostri bisogni, primari e superflui. Il mercato non ha però solo occupato il senso della cura. Ha determinato lo spazio in cui raccontare la cura, che è comunque “social”. Ha in-dotto la necessità impellente di raccontare il prendersi-cura come occasione di realizzazione personale. Guardatemi, io curo dunque sono. C’è chi ne ha vinto le elezioni.Si dirà che la dimensione comunitaria, collettiva, della cura accade nel volontariato e nell’associazionismo. Ebbene: esso ha una qualche incidenza sul piano politico? Se fino ad alcuni anni fa si poteva supporre che la politica, considerata corrotta in quanto tale, fosse impermeabile al senso politico delle buone pratiche del Terzo settore, ora dobbiamo ammettere che anch’esso è funzionale al potere. Non parlo delle singole donne e dei singoli uomini che donano il proprio tempo, ma di molte associazioni di secondo livello deputate al coordinamento e di istituzioni nate per gesti-re i fondi: l’urgenza morbosa della visibilità, lo storytelling delle disgrazie-e-salvezze altrui sono il sintomo dell’allineamento al linguaggio unico, non diversamente dai “prodotti etici” di alcuni istituti di credito.«Occorrerà – dice Ivo Lizzola, citando Benjamin – in qualche modo, forse “liberarsi dalle esperienze” quelle ricche, che pare-vano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano (anche le ingiustizie, i cinismi e le disponibilità) per provare a creare una vita comune in cui fare risaltare una certa povertà “quella esteriore e alla fine anche interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente”».

Giovanni Realdi

insegnante di storia e filosofia,liceo scientifico statale “G. Galilei”,Selvazzano Dentro (PD),componente la redazione di madrugada