Generare e ri-generare
Il perché della rubrica
Al termine del corso formazione di metà settembre a Bassano del Grappa, nel momento in cui si sono tirate le somme di questa positiva esperienza, è nata un’idea: creare uno spazio dedicato, all’interno di madrugada, affinché i discorsi iniziati potessero continuare e svilupparsi nel tempo, in modo da non fare dei due giorni di Bassano, peraltro belli e stimolanti, una parentesi chiusa.
Nell’invito avevo introdotto il tema del convegno Le parole svilite vanno risanate: possiamo ancora essere maestri? E di quali parole? scrivendo che le parole costituiscono strumenti indispensabili per padroneggiare le esperienze e le relazioni, rendendo possibile dare un nome a cosa accade e agire sulle esperienze stesse. Mettere in parole un’esperienza è un modo per prenderne coscienza ed è già un passo importante per trasformarla. Trovare le parole è atto di aderenza con la realtà, segno di consapevolezza.
Le domande si fanno urgenti: siamo ancora maestri? e di quali parole? quali parole “vive”, “salvavita”, dovrebbero essere scritte nel quaderno di ognuno di noi? di quali parole bisogna andare a recuperare etimo, significati, stabilendo un’alleanza importante per condividerle in termini di comunità educante e solidale? Don Milani ha sempre insistito, nelle sue riflessioni educative, sulla centralità della conoscenza del linguaggio e delle parole, soprattutto quando scrive: «Dobbiamo insegnare a leggere la realtà in cui si vive imparando a dominare la parola» o «l’insegnamento della lingua per ridare la parola ai poveri: per spezzare il circolo vizioso secondo il quale le classi superiori condizionano la lingua rimarcando così il divario tra le classi sociali», o ancora «sogno che tutti possiedano la parola», «solo la parola rende uguali! Uguale è chi sa esprimersi e intendere l’espressione altrui».
Ci sono parole “vive”, i cui significati devono tornare a essere condivisi dagli adulti significativi della comunità educante, attorno ai quali ri-progettare assieme percorsi culturali e sociali ri-generativi. La formazione ci aiuterà a riflettere su come possiamo progettare un’azione educativa capace di immaginare il futuro, rimettendo tra noi parole dense di significato, non svilite e impoverite da semplificazioni, oggi, sempre più sbrigative.
La parola ci rivela, è il nostro riflesso
Da qui l’idea di questa rubrica che permetta un approfondimento, volta per volta, di parole scelte per la loro storia e importanza alle quali si cercherà di restituire etimo e significato.
Di recente, nel suo libro Alla fonte delle parole, Andrea Marcolongo scrive: «Le parole sono il nostro modo di pensare il mondo, il mezzo che abbiamo per definire ciò che ci sta intorno e quindi, inevitabilmente, per definire noi stessi. Ogni volta che scegliamo una parola diamo ordine al caos, diamo contorni e corpo al reale, ogni volta che pronunciamo una parola essa è riflesso di noi. Ci rivela. Senza il linguaggio non faremmo che brancolare scomposti nella confusione, incapaci di dire la realtà e ciò che sentiamo. Proprio per questo delle parole dobbiamo avere estrema cura. Sono un giardino da coltivare con pazienza ogni giorno, da mantenere fertile e vivo, fino alle sue radici».
Ritornare a dare il vero significato a parole ormai svilite è un atto educativo ri-generativo personale, familiare e di comunità per poter ri-dare significato e nome alla realtà e alle esperienze di sé, per ri-generare voglia e capacità di senso, di cambiamento, di nuove relazioni di comunità. Compito educativo, creativo fondamentale è, in questo momento, offrire una parola per aiutare a gestire il tempo dell’apprensione e della quarantena, la paura e la rabbia al tempo di una pandemia forse superata, il disorientamento rispetto a un’esperienza sconosciuta che non appartiene al quotidiano ma all’extra-ordinario, che ci obbliga al distacco dal peso delle abitudini, dai pegni materiali contratti, verso la riscoperta di un tempo diverso e di un diverso rapporto con sé e con gli altri.
Ci sono parole i cui significati devono tornare a essere condivisi dagli adulti significativi della comunità educante, attorno ai quali ri-progettare assieme percorsi culturali e sociali nelle nostre comunità di vita e appartenenza. La nuova rubrica vuole essere un piccolo contributo.
Generare
La radice sanscrita del verbo generare è “jan” da cui “janata”, “ganasas”, divenuto poi “genesis”, generazione. La radice latina tramanda “gen” che esprime l’idea di qualcosa che viene alla luce, che germoglia, che è creato, che è capace di durare nel tempo lasciando un segno tangibile concreto, che può prendere forma in una tradizione condivisa, ma anche in una famiglia: come nel caso di una gentes. Generatività viene da generare, etimologicamente è collegato ad altri termini “familiari” quali generosità, genialità, genitore, gente, genere, genuino, originale.
Generare è forse il verbo transitivo per eccellenza, è il verbo della nascita, del mettere al mondo: un figlio, un’opera d’arte, un pensiero, un pandemonio… Ci hanno insegnato a scuola che il verbo si dice transitivo quando l’azione passa, “transita” appunto, direttamente dal soggetto che la compie all’oggetto (persona, animale o cosa) che la riceve o subisce. Pertanto, i verbi transitivi necessitano di un complemento oggetto, qualcuno o qualcosa che completi, orienti, renda compiuta l’azione. Il modo transitivo ammette la necessità di una relazione, ammette la necessità di altro da sé. Anche la matematica ribadisce che la proprietà transitiva è la proprietà di una relazione.
L’esperienza generativa necessita dunque di un complemento ma nasce da dentro, è una concreta risposta al desiderio che spinge a un oltre, a un di-più-di vita che ci fa tendere avanti, a esprimere dando forma a un’energia vitale che troverà compimento in un tempo nuovo: il futuro.
Generare è dunque espressione di quella energia interna che apre le persone al mondo e agli altri, così da metterle in grado di agire efficacemente e contribuire creativamente a ciò che le circonda. L’esperienza generativa non è una, né definitiva, è uno stato dell’essere che tende a ripetersi, ogni qual volta ricerca modi per dispiegare e mettere a servizio i propri doni e il proprio carisma in occasioni a volte inedite e inspiegabili. In quanto processo aperto, in dialogo continuo con il contesto e le circostanze che si vengono a creare, la generatività tende ad assumere la caratteristica di una forma di vita dinamica, che si sviluppa nel tempo.
Ri-generare: il prefisso “ri”
Ri-generare è la dimensione che meglio esprime questa condizione di movimento e occasione continua.
Ri è un prefisso semplice, spesso dato per scontato, molto utilizzato nel nostro linguaggio, che ha in sé una potenza e un realismo straordinari. Il vocabolario Treccani specifica: «È presente in moltissimi verbi, e loro derivati, con valore iterativo, esprime cioè possibilità di duplicazione, ripetizione, così, per esempio: riconoscere, riamare, ricadere, ricongiungere, riproporre, riascoltare, ritentare, rivedere, riscoprire, ridefinire, ripensare. Ri, tra le sue funzioni, ha anche quella di indicare il ritorno a una fase anteriore, dopo il compiersi di un’azione opposta a quella indicata dal verbo semplice, per esempio riacquistare, riguadagnare, acquistare o guadagnare ciò che si era perduto; rialzare, alzare ciò che era caduto; risanare, sanare ciò che era malato; ritrovare, trovare ciò che era stato smarrito, ecc. Oltre a queste funzioni iterative può anche avere valore intensivo o enfatico, risaltare, risentire, ritirare, ecc.».
Questo semplice e potente prefisso “ri-”, è spesso scontato nell’uso, ma non deve esserlo nel suo significato che afferma un’insita, grande opportunità: poter ri-fare, ri-nominare, ri-tornare… Questo prefisso descrive molto bene la condizione umana, chiamata a un cambiamento e a un’evoluzione continui, a un ri-petere, un ri-definirsi quotidiano nelle relazioni e nell’essere.
Prendendo gradualmente coscienza di sé, l’essere umano sperimenta che non è possibile acquisire una compiutezza “definitiva” nel trovare il proprio senso, il proprio esserci nella vita e nelle relazioni una volta per tutte, ma che il nostro “esserci” è un continuo ri- conoscere, ri-nominare, ri-definire sé e l’altro, il passato, il presente, mettendosi così nella condizione di ri-generare il futuro.
Il prefisso “ri” è una piccola parentesi di libertà, che noi mettiamo tra i verbi che definiscono le nostre azioni: ri-corda che posso “di nuovo”, che ho un’altra occasione, un’altra opportunità che spesso i perentori “sempre”, “mai” e “assolutamente” utilizzati nei nostri discorsi non concedono. «Sei sempre così», «assolutamente vero», «non cambi mai»… avverbi granitici, assoluti, che spesso tolgono il fiato e la possibilità, e che non ci rappresentano perché non abitano fino in fondo la caducità, la fragilità dell’essere, la sua possibile resilienza, che ci pongono in un “compiuto” che spesso non ci appartiene, o forse, non ancora.
E allora ri-generiamo le nostre storie, ri-costruiamo la casa comune, ri-duciamo le distanze, ri-vediamo le nostre posizioni… pronti a vivere e a ri-sorgere!
Monica Lazzaretto
Presidente dell’associazione Macondo
vive a Tramonte (Pd), lavora a Mira (Ve)
come responsabile del centro studi della Cooperativa Olivotti scs