Famiglia: mancano le frecce nella faretra
Spigolando tra i libri sui bambini
Lo scacco della famiglia, pulsione di morte
Laura Pigozzi, psicoanalista, ha scritto che «troppa famiglia fa male» (Rizzoli, 2020). La famiglia, all’origine della civiltà, oggi ne sta decretando la fine. È una crisi che investe l’intera società.
«I genitori hanno rinunciato al ruolo di guida proteggendo all’infinito i figli: è il plusmaterno che nasce dal fallimento della cura e sospende il momento della responsabilità. Molti delle generazioni che avevano contestato stanno crescendo figli e nipoti docili, pronti all’assoggettamento».
Cosa è successo? «I giovani che non dissentono permettono al fantasma mai sconfitto dell’antica tendenza dell’essere umano alla sottomissione di giocare la partita della vita al posto loro. Lo scacco della famiglia è la radice di una tragedia sociale più vasta e distruttiva».
Attraverso il concetto di disobbedienza civile elaborato da Hannah Arendt, prende forma (nelle pagine della Pigozzi) una inedita rilettura delle origini del totalitarismo che per la prima volta riesce a spiegare le conseguenze politiche della pulsione di morte freudiana e ci permette di riscoprire alcuni casi emblematici di rapporti genitoriali fallimentari, come quello di Hitler con sua madre. «L’adattamento di un giovane – ci ricorda l’autrice – ha sempre qualcosa di immorale perché sia un soggetto che una comunità si fondano sulla divergenza. È nelle famiglie che i ragazzi dovrebbero allenarsi a trovare lo slancio verso l’esterno, diventando adulti. Fallire questa trasformazione significa condannarli a un’eterna infanzia, che apre le porte non solo ai dittatori bambini ma anche a quelli veri».
Figli super protetti, bambini dimenticati
Silvia Vegetti Finzi ha scritto Il bambino della notte (Ed. Mondadori) in cui sostiene che noi ci «preoccupiamo dei bambini ma non ce ne occupiamo, non siamo disposti che affrontino il minimo rischio. Non correre, non sudare, non salire sul muretto, non sull’albero, non gettare sassi, non mettere i piedi nell’acqua, non qui, non là». Scrive Gibran: «Voi (genitori) siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti». E invece li vogliamo come nostra propaggine. Li abbiamo immolati sull’altare della cosiddetta “sicurezza” di corpi sempre più intatti di bambini che crescono minacciati però nell’anima e nello spirito dal web, dalle troppe ore in cui stanno da soli col cellulare nelle loro piazze virtuali, senza relazioni sociali, di amici veri, di litigi e scaramucce con cui imparare come si sta in gruppo e fino a che punto si può davvero rischiare. Non stupisce quindi che nella primavera scorsa li abbiamo chiusi in casa e, di fatto, dimenticati. Alcune maestre hanno coraggiosamente protestato perché ci fosse almeno la possibilità di salutarsi in un parco all’aperto. Oggi, dopo non essere riusciti nemmeno a organizzare i trasporti in 12 mesi, abbiamo raggiunto l’apoteosi considerandoli “untori” (scrive nel suo libro Annalisa Cuzzocrea), fonti di contagio.
Gli adulti hanno paura del futuro
Un altro fattore che incide sulla natalità è la convinzione (giusta o sbagliata che sia) che la società del futuro sia peggiore di quella del passato o che comunque non sia migliore, tutto il contrario del clima di fiducia e di speranza del dopoguerra. Dopo 75 anni dalla fine dell’ultima guerra siamo entrati in una fase di declino e abbiamo capito che aumentare i soldi (mai così tanti nel mondo anche se in mano a pochi) non serve a nulla e solo un radicale cambiamento ci potrà portare verso un vero sviluppo.
Siamo tutti molto più depressi e spaventati dalla società che avanza.
Chi dice che siamo una società del “benessere”, ora rischia di essere linciato e i molti indicatori, che pure erano migliori del passato, sono regrediti di 20-30 anni.
E i cittadini credono sempre meno al mainstream dominante e ciò dovrebbe davvero farci pensare che è arrivato il momento di cambiare in modo radicale il nostro “modello di sviluppo”. Poi forse abbiamo anche meno spinte dei nostri nonni (che hanno fatto la guerra), siamo diventati più chiusi e così siamo passati da un milione di nati del 1964 agli attuali 400mila e siamo anche passati da paese di emigrazione a paese di immigrazione.
Che fare? Immettere i giovani nel lavoro
Un aspetto importante sarebbe favorire la transizione rapida dagli studi al lavoro perché favorisce anche l’uscita dalla famiglia e aiuta i futuri genitori (paradossalmente) a credere nella famiglia e nei figli. La media europea di uscita dalla famiglia è di 26,2 anni, ma ci sono paesi dove l’età media è inferiore: Svezia, Danimarca, Finlandia. Italia e Spagna hanno i dati peggiori: nel nostro paese i maschi vanno a vivere in autonomia a 31 anni, mentre le femmine a 29 anni. I giovani spagnoli lasciano casa a 29 e così pure in Portogallo. Al di là dei fattori culturali (che ci sono, non a caso solo in Italia i figli abitano per il 60% a meno di un chilometro dai genitori, il che non è neppure un male) è indubbio che ciò che fa la differenza sia il lavoro: se non ce l’hai, stai a casa con i tuoi genitori.
Un vantaggio per il bilancio di spesa sociale
Per questo sono fondamentali nuovi servizi di transizione al lavoro. E la stessa scuola dovrebbe avere, all’ultimo anno, un primo anno di lavoro retribuito (anche per ampliare le conoscenze e l’apprendimento). Sarebbe questa davvero una rivoluzione nell’interesse non solo dei giovani ma del paese perché sappiamo che senza giovani lavoratori le imprese faticano a innovare e ciò ha un effetto positivo non solo e non tanto sui giovani ma sugli stessi pensionati, che dovranno essere finanziati dai contributi dei lavoratori. Viceversa, bisognerà ridurre gli importi delle pensioni e ridurre le spese sanitarie che sono rivolte oggi per il 70% agli over 65 anni: non si faccia finta di non sapere che in trent’anni anni passeremo da 14 a 19 milioni di over 65.
L’esperienza del CUM
Proposta alternativa di convivenza con lo straniero
Può essere fonte di ispirazione l’esperienza del CUM (Consorzio Uomini di Massenzatica, consorzio agricolo di terre comuni di 354 ettari derivanti dagli antichi usi civici) nel delta del Po ferrarese che ha “trasformato” la sua comunità di 600 famiglie da “chiusa” ad “aperta” inserendo molte donne immigrate e i loro figli e contrastando così il declino demografico 1 tipico delle aree interne. Il CUM ha usato questo bene collettivo creando, con un “terzo modo di possedere” (né privato, né pubblico), un’economia “non capitalistica”, in cui ha unito sviluppo con uguaglianza e che è fonte di ispirazione per un futuro sviluppo autosostenibile per le aree interne (e non solo).
Hanno aiutato chi aveva scelto di vivere e lavorare lì per almeno 10 anni ad acquistare (o ad affittare) la casa. Una alternativa, ormai dominante, ai “gruppi” di stagionali stranieri chiamati dalle grandi aziende monocolturali a lavorare per brevi periodi e che si spostano da un territorio all’altro. “Compagnie di ventura” che vanno e vengono, come una moderna soldataglia che, da un lato, distruggono l’antico lavoro stagionale dei residenti locali e dall’altro creano conflitti con le comunità locali che si vedono espropriate di una fonte non solo di lavoro ma di vita sociale e comunitaria che è stata alla base del benessere passato.
Questa digressione “parla” alle strategie sulla natalità, perché il rilancio del paese si basa su radicali cambiamenti nello stile di vita e di un orario di lavoro più distribuito e minore pro-capite, in aiuti per i figli fino a 21 anni permanenti (come ora si è fatto), ma anche sull’apporto imprescindibile di un’immigrazione programmata, regolare e graduale (questo il termine chiave) affinché ci sia integrazione tra locali e “stranieri” che è alla base del futuro sviluppo (specie) delle aree interne.
1 Si veda il libro Between Land and Water, che verrà presentato l’11 giugno 2021 a Bruxelles ai 27 capi di Stato europei, avendo avuto la menzione speciale per il paesaggio in Europa, dopo aver vinto il primo premio in Italia. Per una sintesi vedasi il post di A. Gandini su madrugada.blogs.com.