Esserci per la morte
La nostra vita sta tra due battaglie: la prima è un travaglio che porta al primo inspiro, la seconda è l’agonia che porta all’ultimo espiro. La prima inspirazione è un gesto di straordinaria forza vitale, che avviene in una manciata di secondi, per consentire ai polmoni del feto di svuotarsi del liquido che li riempiva durante la gestazione e di inondarsi di aria. Si tratta di un processo critico e a rischio elevato (nell’1-2 % di casi richiede l’intervento della terapia intensiva neonatale) dovuto alla sinergia tra le stimolazioni alla gabbia toracica indotte dalle contrazioni dell’utero della madre e un tempistico rilascio di adrenalina da parte del feto, che solo allora diventa neonato. L’ultima espirazione è un afflato lieve dopo una battaglia affannosa, anch’essa espressione di una straordinaria forza, che accompagna il progressivo spegnersi delle funzioni vitali fino all’abbandono, alla resa. In mezzo, una successione binaria di sei milioni di cicli di inspiro ed espiro a scandire il ritmo talvolta irregolare del nostro vivere.
Se guardassimo le cose dal punto di vista di una guerra, la prima battaglia ha buone probabilità di concludersi con la vittoria, la seconda è sempre una sconfitta: «finisce che poi un giorno una lucertola prende il sole sulla tua lapide» (tagliente sintesi della storia scritta da Franco Arminio in Cartoline dai morti). In realtà non sappiamo come stanno effettivamente le cose, si tratta davvero di una battaglia vinta e di una guerra persa? Ci interroghiamo da millenni e non abbiamo mai trovato una risposta a questa domanda. Tutta la filosofia nasce da questo interrogativo ma mi piace umilmente pensarla con Heidegger, secondo il quale il nostro esserci dalla nascita acquista autenticità solo quando lo rapportiamo alla sua finitezza, ovvero scegliamo di esserci per la morte.
Una finitezza che confina da un lato e dall’altro con i bordi dell’abisso, dove la vertigine di questo affaccio è un motore o un inibitore potente per ogni nato.
Il ritorno della grande assente
Quando la redazione mi ha chiesto di occuparmi della cura di questo monografico credo tuttavia che il mio cuore abbia avuto un sussulto e, troppo forte è il tema, uno dei miei milioni di inspiri si sia bloccato, forse, per qualche istante.
Tra quell’inspiro sospeso e me che scrivo si è inserita una pandemia che ha sospeso anche lo scorrere dei nostri giorni durante i lunghi mesi del confinamento e bruciato i polmoni, a oggi, di più di un milione di persone, mentre 37 milioni ne ha infettate con sintomi gravi, moderati, lievi, senza sintomi… In una macabra danza che ha colpito umili e potenti, che ha cambiato il nostro lessico intridendolo di metafore belliche, che ha travolto abitudini e con esse la percezione del presente e del futuro, la pandemia della Covid-19 ha rimesso al centro della scena un’attrice che giocava un ruolo apparente di non protagonista: la morte, la grande assente dal nostro tempo per come lo abbiamo conosciuto. Nei mesi di marzo e aprile del 2020, la morte in solitudine nelle terapie intensive intasate da una moltitudine, i cortei di mezzi militari con il loro carico di salme diretti a luoghi lontani per la cremazione, lo strazio dei familiari privati della possibilità di un ultimo saluto, la temporanea abolizione del rito funebre… sono stati uno shock improvviso da cui stentiamo a riprenderci nell’incertezza di quello che potrà avvenire nei prossimi mesi, o anni.
E se questo shock catalizzasse una nuova consapevolezza che credevamo perduta? Non mi sento una fautrice dell’andrà-tutto-bene, abbiamo le prove da quelle aride cifre che non è andata così.
Eppure, la costernazione e lo scandalo, in parte ipocrita, che hanno accompagnato quei morti dai polmoni bruciati alla ricerca di una sepoltura, risuonano come un improvviso dissotterramento del rimosso legato al pensiero e al rapporto con la morte che, quello sì, che giaceva sepolto. La rimozione è, come sappiamo, un fenomeno psichico ma anche storico e sociale causato dalla scissione di contenuti incompatibili e inammissibili alla coscienza.
È vero che tutti dobbiamo morire?
Il mio primo ricordo di infanzia si lega all’incontro con la morte. Ero troppo piccola per sapere che era morto il nonno o per comprendere il significato del verbo “morire” ma, mentre saltavo da un letto all’altro nella grande camera dei bambini, sentii mio fratello maggiore chiedere alla mamma: è vero che tutti dobbiamo morire? Non ricordo la risposta ma solo che smisi di saltare. Anni dopo, appena adolescente, vissi con la morte di mia nonna Elisa il mio primo grande lutto. Ricordo un dolore immenso che non poteva esprimersi. Eravamo tutti chiusi, noi fratelli che questa nonna avevamo adorato, ognuno nella sua bolla. Dopo il funerale, la cena con i parenti più stretti, tutti attorno a un grande tavolo, fu un momento di grande sollievo. Parlammo di lei con dolcezza, con nostalgia ma anche con serenità, come se l’essere lì tutti insieme per lei consentisse di aprirci l’uno con l’altro e di sciogliere il nodo stretto del dolore che da giorni ci attanagliava.
Il giorno dopo andai in libreria e comprai un libro che lessi d’un fiato: Scommessa sulla morte, non proprio un romanzo da adolescente. Mi aprì gli occhi sul dramma del rimosso, sul tabù della morte e le sue dolorose implicazioni, e da lì mi incuriosii degli studi di Elisabeth Kübler-Ross sulla morte e il morire. Quelle letture mi aiutarono allora a vivere il mio primo lutto e anche i lutti successivi e mi aiutano tuttora a cercare di non sottrarmi allo sguardo di Medusa: i due volti della morte, la mia, quella che avevo intravisto la prima volta tra i 2 e i 3 anni di età, e quella dell’Altro, che avevo incontrato la prima volta nel primo lutto di quindicenne. Quando, ero già adulta, morì mio padre, non ebbi paura di portare mio figlio di otto anni in camera ardente e ho nitida l’immagine di lui accanto al suo corpo, in piedi con la schiena diritta, irremovibile come un soldato di guardia fino a quando la fiamma ossidrica non saldò la chiusura della bara. Sono sicura di non aver fatto un torto né a mio figlio né a mio padre.
Prendersi cura è una continua rinascita
Quelle letture precoci e un po’ irrituali per un’adolescente, sono state l’imprinting che mi porta oggi a intendere l’espressione “fine vita” nel suo senso letterale, come un percorso, mio e dell’altro, verso la morte e non necessariamente come una delle due opzioni nel codice binario «eutanasia sì / eutanasia no». Mi indirizzano probabilmente tuttora nella mia professione a dare un senso al percorso di riabilitazione rivolto a persone affette da una patologia neurodegenerativa spietata come la SLA di cui la mia cooperativa, fra altre cose, si occupa.
Ci sono malattie che non si possono guarire ma (solo) curare e, anche nel caso di prognosi apparentemente senza speranza, prendersi cura è un atto relazionale e generativo di portata immensa, una faticosa continua rinascita che richiede una sinergia fra l’io che cura e il tu che vieni curato.
Come con grande delicatezza narrano le testimonianze che seguono.
«La mia nascita è quando dico un tu», qui, adesso e nell’ora della nostra morte.
Chiara Zannini presidente cooperativa sociale Riabilitare, Ferrara