Custodi o padroni del suolo?
L’era presente
È una bella giornata del 1873. Durante una delle sue frequenti escursioni in montagna, l’abate e geologo Antonio Stoppani realizza con chiarezza quanto osserva ormai da tempo. L’impronta dello sviluppo tecnologico sta marcando l’ambiente in modo nuovo, col deposito di sedimenti mai registrati in precedenza, anche ad altitudini elevate. Per evidenziare questa cesura provocata dalle attività umane amplificate dalla tecnica, Stoppani conia il termine Era antropozoica. Oltre un secolo più tardi, il biologo statunitense Eugene Stoermer conierà il termine Antropocene, reso popolare con il contributo del chimico olandese e premio Nobel Paul Crutzen. Lo storico svedese Andreas Malm proporrà invece Capitalocene. Il fisico teorico angloamericano Geoffrey West conierà quello di Urbanocene. Attualmente in corso, il dibattito sulla pertinenza di tali termini ha il pregio di porre con nettezza il tema di come l’uomo stia marcando il territorio. Cospicui residui di combustione fossile, di cemento e derivati, di plastiche, di prodotti poliuretanici e polistirenici utilizzati sempre più in edilizia, sono oggi rintracciabili negli oceani, sui ghiacciai, nei terreni agricoli. Benché non sia escluso che fra tremila anni gli archeologi del futuro potranno trattare tali elementi come reperti utili a capire il mondo di noi Sapiens, resta il tema della contaminazione attuale, di fronte alla quale i nostri corpi mostrano segni di malessere.
Suolo consumato: tre istantanee da Mezzavilla
In un ameno paesino della Pianura Padana, che chiameremo fittiziamente Mezzavilla, esiste in contrada Cascina un importante complesso di archeologia agricola di fine Settecento, composto da stalle, portici, mulino, rimesse. È tutto in stato di abbandono. La struttura non è fatiscente, anzi, è solida e bella. Però nessuno la usa, e per i proprietari sembra rappresentare più una fonte d’ansia che una risorsa. Due chilometri a nord-ovest, verso l’antica contrada Castello, esiste un complesso di archeologia agroindustriale dell’Ottocento utile alla lavorazione del tabacco, fintantoché quest’ultima è stata remunerativa. Essiccatoio, locali di lavorazione e stoccaggio, casa padronale, stalle, magazzini. È tutto in stato di abbandono. Anche questa struttura è solida e bella, ma inizia a cedere in più punti, a partire ovviamente dal tetto. Un chilometro più a sud, appena fuori del centro abitato di Mezzavilla, esiste un imponente complesso di archeologia industriale del Novecento, in attività nel ramo siderurgico fino a una quindicina di anni fa. Due enormi capannoni metallici, più altri edifici minori di complemento. Strutture solide, almeno in parte, ma difficilmente considerabili belle. Fatiscenti e realizzate in materiali un po’ alieni, bloccano da decenni la visuale delle colline e delle prealpi per chi percorra la strada principale del paese.
Suolo perduto: drenare i profitti, scaricare i costi
Se qualcuno lavasse l’auto prelevando l’acqua dal nostro rubinetto ci arrabbieremmo. Se un artigiano alimentasse i macchinari attaccandosi alla presa di casa nostra lo troveremmo bizzarro. Se un nostro vicino attivasse il tosaerba il lunedì, il soffiatore il martedì, l’idropulitrice il mercoledì, il flessibile il giovedì, il tagliasiepe il venerdì, il decespugliatore il sabato e, finalmente, si concedesse un momento di relax domenicale attivando il barbecue e accendendo lo stereo, probabilmente non violerebbe alcun regolamento comunale, ma ci darebbe molto, molto fastidio. Le tre istantanee da Mezzavilla fotografano situazioni che hanno qualcosa in comune con queste situazioni-limite. Le strutture prima descritte sono state utilizzate finché redditizie, hanno sfruttato manodopera locale, alimentato paternalismo e talvolta inquinato. E poi sono state lasciate al loro destino, sulle spalle dei territori, delle comunità locali e delle ragazze e ragazzi di oggi che saranno grandi domani. Spesso sono terra di nessuno, utile a scaricare abusivamente un po’ di rifiuti. E i proprietari sembrano in attesa che accada qualcosa (un provvidenziale incendio ad esempio, che liberi dall’obbligo di un’onerosa messa a norma), o che una nuova legge regionale ne monetizzi la cessione in metri cubi.
In tutto questo, gli abitanti di Mezzavilla non hanno voce in capitolo. Si sono trovati questi tre complessi belli e pronti, realizzati da imprenditori con velleità di filantropi, a cui hanno riservato in egual misura sudditanza grata e rabbia repressa. Ma i tre complessi rimangono là. La terra fertile occupata dalle loro superfici è ormai sterile o èstata addirittura sbancata e asportata. In almeno un caso, nel sottosuolo sono stati interrati residui di lavorazione. Non male, per un paesino come Mezzavilla che si definisce ancora agreste.
Suolo abusato: quando si compromette la generatività
È la non reversibilità il tema centrale a Mezzavilla. Un’irreversibilità paradossale, se si pensa a quanto siamo oggi refrattari alle scelte “per sempre”. Scaricandola su altri, che poi sono figli e nipoti, a qualcuno questa irreversibilità appare più tollerabile. Curioso. I complessi dismessi occupano una superficie e un volume non più necessari. Come se non bastasse, nel frattempo altri capannoni sorgono, limitati un po’ dalla crisi economica ma non da propositi di riduzione del consumo di suolo. È come se gli insediamenti industriali avessero, nei più, corrotto il modo di guardare ai campi. Non più terra fertile e ricca di biodiversità, frutto del ritiro del mare, di periodiche esondazioni dei fiumi, di schiene spaccate in secoli di lavoro, di regimentazione delle acque, bensì mero spazio vuoto, da riempire e sfruttare. Anche se per farlo occorre sbancare proprio i pochi centimetri di strato fertile, sostituito da pietrame e inerti. Anche se si interrano rifiuti. La psicanalisi avrebbe materiale su cui lavorare. Perché tanti uomini (per lo più maschi) usano tale violenza nei confronti della terra che dà loro da vivere? Quale disfunzionale rapporto con quanto siamo usi declinare al femminile (la madre terra, la natura)? Quali curiose fobie verso quanto si sottrae al nostro impulso di dominio (ecco allora la terra matrigna)? Quali ottuse resistenze di fronte al limite (se la tecnica lo consente, perché non farlo?)… Fino a dove potremo spingerci, compromettendo la generatività del suolo e, forse, la nostra?
Aver cura del suolo
Gli articoli che seguono hanno due grandi meriti. Rispetto al consumo di suolo non nascondono i problemi, denunciando quanto va denunciato. Ma offrono tutti una prospettiva, grazie al racconto di quanto funziona, di quanto si è fatto, di quel che si potrebbe fare. Perché gli umani non si rassegnano, cercano soluzioni, provano a sostenerle. C’è insomma chi, alle ragazze e ai ragazzi di oggi e domani, vuole lasciare in eredità un campo, una collina, un fiume.
Davide Lago
docente di pedagogia generale,formatore in percorsi autobiografici