Compresenza dei morti e dei viventi
Tutti è il plurale di tu
Mi capita, incautamente, di dire talvolta “compresenza” come qualcosa che lega vita e morte, vivi e morti. Questi non stanno in attesa di un giudizio finale o di altra sorte. Ma stanno, in qualche modo, con i vivi. La compresenza dei morti e dei viventi, non è un’opera sugli zombi, ma un saggio di Aldo Capitini. Bobbio dice che «forse di lì sarebbe cominciata le sua migliore stagione filosofica: ma la morte l’interruppe». A seguire Capitini lo possiamo pensare invece intento, quanto in vita, a «collaborare nascostamente al valore». E forse vicino al punto indicato, in una lettera sul tema, proprio a Bobbio. «La prassi non è essa sola la distinzione tra compresenza e storicismo, ma oltre la prassi c’è un diverso concetto di essere. È il punto che sto studiando da mesi. Mi pare di essere sulla via di chiarirlo». Di Capitini ricordo che diceva “persuaso” in luogo di “credente”, tutti (che è plurale di tu) invece di “tutto”, “compresenza” invece di “Dio”. La scelta di questi vocaboli era frutto di una teoria e di una prassi, sulla quale non mi addentro. Me ne manca la capacità. All’amica che lo chiede posso dire un po’ cosa è per me questa “compresenza” e come mi aiuti ad affrontare, decentemente spero, la morte di chi mi è caro e la mia.
La consegna della chiave del cimitero
Un ricordo: bambino, forse nove anni, forse meno, ai funerali del nonno materno. Con il coetaneo cugino reggo i cordoni della bara durante il trasporto. Hanno detto che stavamo molto bene così. Sarà pure stato. Era un nonno solo intravvisto e ricercato nei ricordi. Poi c’è la sepoltura al cimitero di Suzzara. Con il cugino ho acceso le candele, raddrizzato i vasi, messo in ordine tutte le tombe raggiunte. Parenti a me ignoti e perfetti sconosciuti. Sono venute altre morti, altri funerali, altri cimiteri. Ma questo lo ricordo bene. Me ne torno con una frase, che ripeto spesso: «Fatti non foste a vivere come bruchi, ma per formar l’angelica farfalla». Per anni sono convinto di averla letta al cimitero. Forse c’era «noi siam vermi, / usati a formar l’angelica farfalla», Purgatorio X, 124-125. Io l’avrò fusa con «Fatti non foste a viver come bruti», Inferno XXVI, 119, con un piccolo aggiustamento. Sono andato, molti anni dopo, per sincerarmene, ma non ricordo l’esito.
M’è rimasto invece l’entrare nei cimiteri, sostarvi, leggere le iscrizioni sulle lapidi. Lo faccio meno di un tempo, forse perché troppo frequenti si sono fatti i funerali degli amici, dopo quelli di genitori e parenti. Mi ha colpito leggere nel libro di Capitini «quando si è in un cimitero non si vorrebbe restare custode di una tomba soltanto, anche se di una persona stata a noi carissima; perché essere custodi di tutte, leggere le altre epigrafi, mandare un sorriso a ogni giacente; e ogni osso su dalla terra e dalle casse disfatte, ci è caro un oggetto lasciato, che si direbbe anonimo, ma fu di un essere umano singolo e con un nome».
Così Capitini considerava un grande onore e proponeva la consegna della chiave del cimitero al cittadino che l’avesse meritato. Ecco, in quell’esperienza lontana, posso dire di avere percepito, forse, il soffio leggero della “compresenza”.
Vittime della società dello scarto
Lo stesso avviene quando – raro, molto raro – riesco a essere veramente con quanti sono vittime della società dello scarto. Capitini li chiamava – l’elenco che ne ho tratto non è certo completo – in molti modi: ammalati, anonimi, annullati, chi non ha, chi non è, chiusi, ciechi, colpiti, colpiti dal mondo, consunti, corpi morti, crocifissi, deformi, dementi, dileguanti, dimezzati, diminuiti, disperati, dispersi, dissolti, distrutti, ebeti, esangui, esauriti, esclusi, falliti, fatti a pezzi, fiaccati, gementi, gobbi, gracili, gracilissimi, immobilizzati, inerti, infermi, infimi, insufficienti (relativi e assoluti: morti), irragionevoli, languenti, limitati, lontani, malati, mal ridotti, mezzo dentro la fossa, minimi, morenti, morti, non attivi, pallidi, pazzi, periferici, poveri, presi, rattrappiti, ridotti a un’ombra, scadenti, schiavi, scomparsi, sconfitti, sfiniti, soccombenti, sofferenti, sopraffatti, sordomuti, stanchi, stolti, stroncati, stupidi, trascurabili, ultimi, vecchi, vittime, zoppi.
Soffermarmi su ogni termine è quasi un esercizio. Certo potrei aggiungerne io stesso. Alzheimer, quando l’anima muore prima del resto del corpo, o asintomatico, incolpevole, insidioso e temuto untore. Non procedo lungo l’alfabeto. Noto che l’epidemia ha mutato profondamente – per sempre o riusciremo a dimenticarlo? – il nostro modo di vivere e di morire. Mi sono sorpreso a considerare, alla morte di un caro amico, che la sua morte in casa, il suo funerale erano rimasti umani. Non si era ancora in tempo di norme date dalla pandemia. E la mascherina che portiamo, per qual po’ di rispetto che l’un l’altro ci dobbiamo, ci accompagna come memento palese della nostra condizione di fragilità. Di un’ulteriore fragilità sono testimoni negazionisti del male e non solo di quello – no mask, no brain – nelle loro danze macabre e processioni vocianti.
C’è l’esperienza di accompagnare alla morte una persona cara, condividendo il dolore di una fine prossima e valutando e progettando ancora cose che ci interessano. È un’esperienza dolorosa e privilegiata di vicinanza, che dura nel tempo.
E ritorna. Nei sogni i miei morti tornano spesso. Sono ben vivi e spesso migliori di quanto li ricordi da sveglio. Nei sogni mi sono riconciliato con persone con le quali mi ero lasciato senza un abbraccio, una spiegazione. In sogno un autore da me poco conosciuto, per scarse letture, mi ha spiegato a cosa serve la storia. Un po’ me ne sono ricordato. Mi sembra – forse mi sembra solo – che alla mia morte posso prepararmi e infine affrontarla con coraggio. È una morte diversa da quella che avevo accanto, adolescente. Non ci credevo. Perciò la progettavo come via d’uscita, fossi stato alle strette. Alla perdita di una persona cara non ci si rassegna. Forse è lì tutto il nocciolo della religione.
Quanto siamo attuali noi rispetto ai morti
La “compresenza” mi appare nei momenti migliori dell’impegno politico, sociale. Quando si ascolta e parla veramente. Lo dice bene Capitini: «è qualche cosa di più della somma dei presenti; è sempre un’unità che cerca sé stessa, come un astro staccato da una galassia che intraprenda a ruotare in un’orbita… Su ogni assemblea passa il soffio della compresenza». E allora le nostre sono vere discussioni. Quelle che scuotono gli argomenti alla ricerca della soluzione migliore a un problema comune. E i morti ci portano quanto hanno pensato, scritto, testimoniato. Spesso la domanda giusta non è quanto siano loro attuali, ma quanto siamo attuali noi, rispetto al loro pensiero, al loro impegno.
Anche per Capitini è stretto il legame tra “compresenza” e impegno «per il potere di tutti o omnicrazia (come lo chiamò). Per me è intrinsecamente connesso con la religione, che, per me, è più della compresenza che di Dio; e perciò la compresenza di tutti (religiosamente dei viventi e dei morti) deve continuamente realizzarsi, come ho già detto, nell’omnicrazia, e chi è centro della compresenza, è centro anche di omnicrazia; ed è intrinsecamente connesso con la nonviolenza, di cui è l’idea politico-sociale. Il lavoro per i C.O.S., per il pacifismo integrale, per la proprietà pubblica aperta a tutti e creante continue eguaglianze, non sono che effettuazioni dell’interesse per l’omnicrazia».
Infine, questa la conclusione del suo scritto testamentario. Attraverso due terzi del secolo «ho insistito per decenni a imparare e a dire che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro “puro dopo” la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata la compresenza».
Chiudo con il suggerimento di leggere La compresenza dei morti e dei viventi recentemente ristampata e che trovate in calce a quest’articolo.
Daniele Lugli avvocato, già difensore civico alla Regione Emilia Romagna, impegnato nel Movimento Nonviolento
COLLOQUIO CORALE
di Aldo Capitini
La mia nascita è quando dico un tu.
Mentre aspetto, l’animo già tende.
Andando verso un tu, ho pensato gli universi.
Non intuisco dintorno similitudini pari a quando
penso alle persone.
La casa è un mezzo a ospitare.
Amo gli oggetti perché posso offrirli.
Importa meno soffrire da questo infinito.
Rientro dalle solitudini serali a incontrare occhi
viventi.
Prima che tu sorridi, ti ho sorriso.
Sto qui a strappare al mondo le persone avversate.
Ardo perché non si credano solo nei limiti.
Dilagarono le inondazioni, e io ho portato nel mio
intimo i bimbi travolti.
Il giorno sto nelle adunanze, la notte rievoco i singoli.
Mentre il tempo taglia e squadra cose astratte, mi trovo
in ardenti secreti di anime.
Torno sempre a credere nell’intimo.
Se mi considerano un intruso, la musica mi parla.
Quando apro in buona fede l’animo, il mio volto mi
diviene accettabile.
Ringraziando di tutti, mi avvicino infinitamente.
Dò familiarità alla vita, se teme di essere sgradita ospite.
Quando tutto sembra chiuso, dalla mia fedeltà le
persone appaiono come figli.
A un attimo che mi umilio, succede l’eterno.
La mente, visti i limiti della vita, si stupisce della mia
costanza da innamorato.
Soltanto io so che resto, prevedendo le sofferenze.
Ritorno dalle tombe nel novembre, consapevole.
Non posso essere che con un infinito compenso a tutti.
Aldo Capitini (1899-1968) – filosofo, libero religioso, antifascista, indipendente di sinistra, vegetariano, nonviolento, poeta ed educatore. È licenziato da segretario dalla Normale di Pisa dal direttore Giovanni Gentile per il rifiuto di prendere la tessera del Partito Fascista. È attivo nell’antifascismo e nella Resistenza, che avrebbe voluto nonviolenta, sull’esempio di Gandhi.
Nel dopoguerra si impegna per un rinnovamento e approfondimento della politica e della religione con vari saggi e iniziative. A Perugia, dove nasce e muore, promuove i Centri di orientamento sociale (1944), che hanno diffusione in varie città. L’orientamento – liberalsocialista: massimo di libertà e massimo dell’eguaglianza – è verso un superamento della democrazia liberale. Parla di potere di tutti e di ciascuno, di omnicrazia: aggiunta di forme di democrazie diretta e di azione nonviolenta agli strumenti di rappresentanza.
Dal 1946 promuove il Movimento di religione con una proposta caratterizzata dal valore della mitezza, del perdono, della nonviolenza, dell’apertura alla realtà di tutti, della compresenza di tutti gli esseri. Apre il Centro di orientamento religioso (1952) a Perugia. Nello stesso anno fonda la Società vegetariana. Promuove la prima Marcia per la pace Perugia-Assisi nel 1961 e l’anno successivo dà vita al Movimento nonviolento. Docente alle università di Cagliari, Perugia e Pisa ha pubblicato moltissime opere, non sempre facili da reperire. Una buona raccolta delle stesse è in Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, e Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Protagon, Perugia, 1992 e 1994. Il Ponte Editore, Firenze, in coedizione con Fondo Walter Binni e Fondazione Centro studi Aldo Capitini gli dedica una collana. Dal 2018 sono usciti Antifascismo tra i giovani, Nuova socialità e riforma religiosa, La compresenza dei morti e dei viventi, Educazione aperta.
Daniele Lugli