Cinque lezioni dalla pandemia
C’è qualcosa che la crisi ingenerata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2 può insegnarci?
Proviamo a fare un rapido e provvisorio bilancio in cinque punti.
I.
La prima – e forse la più importante – lezione consiste nel fatto che, dinanzi a un’emergenza particolarmente insidiosa, il volto autoritativo e gli strumenti imperativi del “vecchio” Stato amministrativo tornano a farsi sentire con forza.
La rivincita esplicita dei poteri pubblici e della loro tradizionale capacità di supremazia speciale è un dato connaturato alla fisiologia dello Stato moderno. È naturale, dunque, che questa sorta di spina dorsale si faccia sentire ogni qual volta il corpo tutto della comunità rischi di risentire in modo esiziale degli effetti di eventi imprevisti o eccezionali. Né c’è da stupirsi più di tanto se si sia fatto ricorso più volte all’idea della “guerra” da combattere, dal momento che proprio quel genere di evento rappresenta il caso classico di quali e quante possano essere, anche legittimamente, le sospensioni dei normali equilibri istituzionali.
In questi frangenti, pertanto, l’argomento di cui occuparsi non è soltanto l’utilizzo da parte del governo di strategie decisionali molto forti e penetranti, ma la ponderata e rigorosa limitazione di questa tecnica alla fase che ne richiede l’improcrastinabile intervento, nonché il controllo o monitoraggio politico e sociale di quanto sta accadendo. In parole più semplici, ciò di cui ci si sarebbe dovuti lamentare, con maggiore senso di responsabilità, è la lentezza con cui il Parlamento ha reagito o, prima ancora, l’arresto delle sue stesse attività, in larga parte motivato da preoccupazioni o timori veri e propri che, se sono comprensibili nel comune cittadino, non lo possono essere del tutto nei titolari degli organi costituzionali o negli attori del sistema partitico.
II.
La seconda – e altrettanto significativa – lezione è che la reazione dello Stato amministrativo è prerogativa di ogni potere territoriale dotato di una legittimazione comunitaria: vale per lo Stato in senso stretto; vale anche per gli enti pubblici territoriali, quindi anche per le regioni, che nella pandemia hanno spesso avuto un ruolo da protagoniste.
Sorvolando sui comportamenti senz’altro riprovevoli di alcuni “governatori” regionali (improntati per lo più a una sorta di agonismo comunicativo da campagna elettorale permanente), occorre riconoscere che, nell’emergenza, non vi è nulla di negativo nell’attivazione tempestiva dei centri decisionali più vicini ai fattori primi di diffusione del pericolo da affrontare. Un po’ perché, almeno nella materia sanitaria, lo prevede anche la disciplina nazionale. Un po’ perché l’efficacia delle azioni di contrasto di quello stesso pericolo non può che misurarsi dalla prontezza delle reazioni più prossime alle ragioni del pericolo medesimo. Anche in questo caso, pertanto, il tema critico non è nell’esistenza di un pluralismo amministrativo – che, anzi, corrisponde al meglio a ciò che postula il disegno costituzionale della Repubblica – bensì la lentezza o il difetto dei dispositivi di coordinamento tra i livelli territoriali e quello “centrale”.
Ancor più criticabile, poi, è parsa la tendenza a non condividere le informazioni o le analisi di carattere tecnico-scientifico, in un contesto complessivo nel quale il riferimento all’elemento conoscitivo, davvero fondamentale, è stato a sua volta strumentale alla riaffermazione per altra via di concorrenti legittimazioni politico-rappresentative: in altri termini, la “gara” politica si è trasformata in una “gara” tra esperti di diversa affiliazione organizzativa, con il rischio di una vera e propria eterogenesi dei fini, nella quale la maggiore o minore competenza tecnica è diventata il veicolo della maggiore o minore capacità amministrativa. Se è vero, infatti, che senza la prima la seconda può conoscere difficoltà insormontabili, è altrettanto vero che è solo la seconda a dare effetto concreto alla prima e, soprattutto, a scegliere tra le alternative comunque possibili sul piano scientifico e tecnologico.
III.
Da quest’ultima osservazione possiamo ricavare un’ulteriore lezione, ossia l’insegnamento che non è vero che la scienza sa e può ogni cosa, e che, di conseguenza, non è vero che, per quanto indispensabile per qualsiasi genere di istruttoria, l’opinione degli esperti possa svolgere, da sola, un ruolo determinante.
Delle evidenti, e comprensibili, incertezze del dibattito scientifico e accademico nel corso della pandemia siamo tutti diventati gradualmente consapevoli. Il fatto è che, a ben guardare, non c’è nulla di male in tali incertezze, sia perché corrispondono a un fattore costitutivo della ricerca e della dinamica della conoscenza, sia perché riguardano un fenomeno relativamente al quale, purtroppo, è l’esperienza a poterci dare un reale parametro di valutazione.
Il lato poco positivo di tali incertezze, viceversa, è emerso soprattutto nella mancanza di una loro comunicazione reciproca, vale a dire di una loro condivisione istituzionale: per essere valorizzate, le discussioni tra gli esperti devono essere organizzate e canalizzate in sedi e procedure che possano renderle fruibili e misurabili dai decisori politici e amministrativi. In proposito qualcuno potrà obiettare che, per l’appunto, esiste un comitato tecnico-scientifico che sul piano statale ha tutta la legittimazione per operare proprio in tale direzione. Ma non si può negare né che la composizione di quel comitato abbia largamente seguito una logica prevalentemente burocratica, né, specialmente, che esso, proprio per questa derivazione di matrice ministeriale, non sia riuscito a rappresentare il luogo “condiviso” della comunità nazionale degli esperti.
IV.
Una quarta lezione si può desumere dall’apprezzamento del peso che gli esperti e il loro lessico hanno avuto sulla determinazione delle “regole eccezionali” dell’emergenza, specie in merito alle limitazioni diffuse di tante libertà individuali e collettive.
Sul punto il dibattito giuridico è stato, ed è tuttora, molto acceso e vario. Le critiche sollevate nei confronti dei numerosi decreti adottati dal Presidente del Consiglio sono state tante, e in larga parte vanno metabolizzate con doverosa attenzione.
È senz’altro vero, in particolare, che, specie all’inizio della cosiddetta. “fase 1”, l’Esecutivo non ha saputo scegliere subito con certezza il regime giuridico più adeguato, oscillando tra la disciplina della protezione civile, i poteri previsti dalla legge sul servizio sanitario nazionale e la decretazione d’urgenza. Forse un atteggiamento vagante di questo genere è in parte dovuto all’oggetto stesso della disciplina, non così facile da comprendere e, dunque, da contenere e regolare. Ma è fuor di dubbio che questo atteggiamento si è posto in formale frizione con le molte riserve di legge previste dalla Costituzione e segnatamente con quella prevista in materia di libertà di circolazione. A molti, poi, è anche sembrato che il governo – anche per via dell’utilizzo dello strumento delle cosiddette “autocertificazioni” – avesse fatto ricorso all’arsenale più fastidioso e scivoloso dell’amministrazione di polizia, e alla connessa e invariabile terminologia vaga e burocratica, suscettibile di interpretazioni arbitrarie.
Se tutto ciò è vero, però, è altrettanto indiscutibile che il carattere vagante della disciplina e la sua proiezione molto restrittiva e quasi “pedagogica” sono riconducibili al fatto che i provvedimenti assunti attengono prevalentemente alla sfera della tutela della salute come interesse della collettività, obiettivo che ampiamente rientra nella sfera degli interessi costituzionalmente rilevanti. Oltretutto, trattandosi di tutelare la salute, non c’era da stupirsi che anche il tenore di alcune prescrizioni seguisse la formulazione delle più tipiche raccomandazioni, con forte rinvio all’autoresponsabilità che il medico deve attendersi da ogni paziente diligente.
Se si vuole, in definitiva, si potrebbe anche osservare che, nelle maglie di una società istituzionalizzata e complessa, che ambisce a trattare efficacemente ogni possibile rischio, non solo i rischi maggiori e “vitali” rianimano le reazioni “più forti”, ma il carattere strutturalmente diffuso di quei rischi richiede una regolazione molto dettagliata e potenzialmente invasiva: ciò a compensazione della sicurezza che viene garantita alla comunità. Dopodiché viene da chiedersi se sia ancora accettabile e sostenibile un simile modello di “nullificazione programmatica” del rischio e di “orientamento” sociale e individuale così spinto. Perché tali caratteristiche, così tanto emerse nella contingenza della crisi, sono peculiarità quasi genetiche dell’approccio moderno alla cosa pubblica e alla sua intrinseca pervasività.
V.
In molti si sono chiesti se la pandemia costituisca l’occasione di crisi funzionale all’affermazione concreta di trasformazioni non più rimandabili; l’opportunità che può stimolare cambiamenti anche profondi: ma quali? Da un lato potremmo attenderci cambiamenti in avanti, tali da aumentare o perfezionare il suddetto approccio moderno e razionalizzante alla gestione – amministrazione – della cosa pubblica, allargata a qualsiasi fattore di rischio (ambientale, economico, sanitario etc.). Dall’altro potremmo aspettarci cambiamenti per così dire all’indietro, di nuova accettazione di rischi finora mediamente superati e “gestiti”, nella consapevolezza che non tutti i progressi son positivi e che, in fondo, al maggiore protagonismo istituzionale dell’uomo corrisponde una maggiore responsabilità nella causazione o nell’aggravamento di patologie dalla portata globale. Qualcuno, non a caso, ha notato che il virus ha corso lungo le dorsali della fortissima infrastrutturazione cui tutto il mondo è ormai soggetto.
Al di là di ciò che si può pensare sullo scioglimento di questo nodo – che non è informato, come si potrebbe credere, alla semplice dialettica tra posizioni progressiste e posizioni conservatrici – è bene annotare che si tratta di profili che fuoriescono dalla portata della dimensione statale. Comunque li si voglia affrontare, esigono ri-organizzazioni esplicite del nostro vivere e delle sue proiezioni istituzionali.
È un dato con cui occorre fare i conti, ed è dimostrato, ad esempio, non solo dal ruolo essenziale che hanno avuto e hanno ancora, in ogni Stato, le strategie assunte sul piano sovranazionale (in primis circa la capacità di spesa e di “debito” di ogni decisore politico), ma anche dalla circostanza che proprio il veicolo strutturale del modello dello Stato amministrativo e della sua affermazione storica esige risposte pubbliche proporzionate e adeguate alla natura dei fenomeni da regolare, oggi non più facilmente comprimibili in qualche confine o nella regolazione dei rapporti reciproci tra i sovrani.
Fulvio Cortese