Che fine hanno fatto i bambini

di Redazione

È questo il titolo del bel libro di Annalisa Cuzzocrea (ed. Piemme, 2021) che ha intervistato molti esperti per capire le cause della “scomparsa” dei bambini dall’agenda politica italiana. Il tema si connette col declino demografico e di come rimediarvi. L’impressione che ne abbiamo ricavato leggendo il libro è che i bambini non votano e quindi sono poco considerati, a differenza dei pensionati, che pure fanno i nonni e aiutano (forse più di qualsiasi altro paese) i loro nipoti.

Scuole chiuse durante la pandemia.
Un esempio è la gestione delle scuole durante la pandemia; come hanno scritto Tito Boeri e Roberto Perotti (la Repubblica, 3/12/2020), in Italia nella primavera 2020 le scuole sono rimaste chiuse 105 giorni rispetto ai 67 giorni della Spagna, ai 60 di Francia e Regno Unito, 53 di Germania e 48 di Olanda. In molti di questi paesi le scuole erano comunque aperte (anche quando erano chiuse) per i figli dei “lavoratori essenziali” e i bambini disabili. Altri paesi, inoltre, non hanno mai chiuso le scuole.
In autunno e ancora in primavera si è ripetuta la chiusura (sempre più prolungata da noi) perché non ci siamo occupati né dei trasporti né del tracciamento.

Didattica a distanza e danni.
Al sud (che pure ha avuto meno problemi) Campania, Puglia e Calabria hanno chiuso le scuole ancora di più delle regioni del nord, dimostrando come la gestione regionale di scuola (e sanità) nelle regioni del sud sia anche peggiore di quella dello Stato, nonostante in queste regioni la scuola sia un presidio fondamentale proprio per i giovani e le famiglie povere. Studi svolti in alcuni paesi europei mostrano che chi aveva i voti più bassi durante il lockdown ha passato 3 ore in più al giorno a guardare tv e giocare al computer rispetto agli studenti con i voti migliori che spesso, abitando in case più grandi e in famiglie più abbienti, hanno più interessi esterni alla scuola (sport, corsi…). Ciò ha accentuato la perdita di apprendimento, soprattutto per i figli delle famiglie povere.

Discrepanze e aiuti insufficienti.
Ma torniamo al declino demografico. L’Istat dà una sua interpretazione del declino nel suo ultimo, molto interessante report (www.istat.it), indicando un cambiamento di cultura nelle donne, per cui se un tempo erano le donne disoccupate o casalinghe ad avere più figli, oggi succede il contrario: sono proprio le donne (prevalentemente del nord) e che lavorano ad avere più figli. Non a caso è la provincia di Bolzano che ha il più alto tasso di occupazione femminile in Italia (73% dai 20 ai 64 anni, fonte Istat) che ha la massima fertilità (9,9), mentre chi ha la minima (5,4) è la Sardegna che ha uno dei più bassi tassi di occupazione femminile (47,9%, un terzo in meno delle donne di Bolzano).
Ciò che favorisce la natalità sono aiuti non temporanei ma permanenti alle famiglie con figli e servizi come le scuole d’infanzia. L’Italia è uno dei paesi europei con la più bassa spesa pubblica a favore dell’infanzia (e la più alta per le pensioni), ma non è pensabile che gli aiuti economici da soli possano riportare alla ripresa della natalità.
Contano infatti molto altri fattori, come la percezione sul futuro (che oggi è negativa) mentre nel secondo dopoguerra c’era un’enorme speranza di rilancio del paese.

Città anonime e insicure per bambini.
Le famiglie oggi sono sole con i propri figli. È avvenuto un grande cambiamento rispetto al passato e oggi i figli sono di proprietà esclusiva della famiglia, nel senso che è cresciuto un senso “proprietario” sui figli e, peraltro (o forse proprio per questo), nessuno aiuta più i bambini degli altri. La stessa struttura delle città e dei paesi che una volta era configurata per aiutare i bambini a sviluppare una propria autonomia, girare liberamente (seppure in modo protetto) e con un certo controllo da parte dei vicini, dei negozianti, degli artigiani, oggi è completamente “saltata”, in quanto prima le auto, oggi l’e-commerce (commercio on line), stanno trasformando città e paesi in luoghi invivibili soprattutto per i bambini e sempre più anonimi e come tali insicuri per tutti. Tra auto che sfrecciano in città e desertificazione di centri storici (e ancor più le periferie), con la scomparsa dei piccoli negozi di prossimità, degli artigiani della porta accanto, è cresciuta l’indifferenza sociale verso i bambini degli altri e si rischia di essere anche presi a male parole (quasi pedofili) se ci si ferma a parlare con bambini che non si conoscono.

Procedure di controllo.
Da un lato l’economia e la società creano contesti sempre più insicuri, dall’altro si introducono di continuo procedure formali di cosiddetta “sicurezza”, che impediscono di fare ormai nelle stesse scuole qualsiasi attività sociale-conviviale e all’aperto: dalle gite scolastiche ai laboratori, tutto ciò che comporta un minimo rischio per i bambini è bandito. Farsi un piccolo taglietto durante un corso di intaglio col coltellino (peraltro cosa rara) rischia una denuncia da parte di genitori, sempre più agguerriti per la tutela solo fisica dei propri figli (perché anima e spirito, essendo invisibili, non contano). In passato andavamo tutti a scuola a piedi o in bici da soli: era un’esperienza di libertà e autonomia, al pomeriggio si giocava con i cugini in cortile o si andava a casa dal compagno di scuola. Dietro casa c’era spesso la campagna o un prato incolto, dove si giocava. A volte si andava al luna park con i cugini più grandi. Un mondo bellissimo, scomparso a vantaggio dei telefonini onnipresenti (già a 9 anni), che servono però anche per essere controllati e sempre rintracciabili. Poi nel doposcuola si oscilla tra una super organizzazione fatta di corsi e continui trasferimenti in auto o la periferia dove però la fanno da padrona le mafie e i criminali.
In passato la libertà e l’autonomia si traducevano al massimo in qualche scaramuccia con gli altri bambini (picchiarsi, litigare, correre e cadere, farsi male, marachelle, ecc.) ma in modo “protetto” all’interno del gruppo e da adulti che vivevano le città e i paesi; era un modo di sperimentarsi nel gruppo, sviluppando abilità fondamentali e sociali, che portavano a misurare il pericolo (quello vero), imparare dagli errori che, in quanto piccoli e proporzionati all’età, ti permettevano di crescere.

Un presente controllato ma insicuro.
Oggi questa ampia esperienza sociale, che consentiva a bambini (molto più numerosi di oggi) di giocare in cortile o in strada con età diverse e di condizioni sociali diverse, è stata spazzata via. Il bambino (sempre più unico) delle famiglie abbienti oggi trova un contesto fuori dalla scuola molto “ricco” di proposte (sport, corsi privati, amici, viaggi…), mentre i figli delle famiglie più povere non solo non hanno queste possibilità, ma hanno visto gradualmente eliminati fuori dalla scuola e dalla propria casa (spesso poco “accogliente”), i luoghi dove i bambini potevano incontrarsi e giocare (anche in segreto). Una forma anche questa nuova di disuguaglianza e ne soffriamo specie noi italiani che abbiamo avuto la massima urbanizzazione del territorio e la minore infrastrutturazione di parchi e giochi per bambini in Europa.
L’insicurezza dei bambini va così di pari passo con un’insicurezza dei genitori che fanno sempre meno figli, che si sentono investiti di un’enorme responsabilità di cura (basta andare in un negozio per bambini per vedere l’incredibile quantità di supporti, beni, medicine…). Così sono diventati loro stessi “vittime” e difensori, per cui se al compleanno un bambino morde tuo figlio è un dramma, favorendo così la fragilità e minando l’autonomia. Un mondo capovolto, da cambiare.

A cura della Redazione