Cambiare la prospettiva
Ripensare la relazione
Il confinamento crea un blocco nelle relazioni, ne modifica la natura. A poco importa che vi sia o meno condivisione degli spazi. Noi tutti sappiamo che le relazioni sono sane quando sono libere, aperte allo scambio, nella reciprocità. Altrimenti si tratta di altro. In questo periodo si è imposto l’utilizzo di uno strumento quale mezzo che media la relazione, richiede una qualche separazione nello scambio comunicativo che sappiamo non essere fatto di sola parola. Forse in questa condizione obbligata ci è stato possibile cogliere qualcosa che rendeva un poco ottusa, appunto, la relazione.
Credo che questa pandemia abbia evidenziato molti aspetti già critici del nostro vivere, non è quindi addebitabile alla stessa il mutamento delle relazioni. Certo è che tocca ridefinire la relazione, intendendo con questo termine, femminile e singolare, la parte più vera del modo non solo di comunicare tra umani, ma anche di considerare il nostro essere parte di una più ampia e complessa realtà dove noi siamo solo una particella del tutto e dove il relazionare è fatto di una dimensione non antropocentrica.
In questo, ripensare la relazione significa ridimensionare la nostra presenza quale parte che si pone in termini centrali e dominanti, inserendola invece in un vivere quotidiano “paritario” con l’ambiente, flora e fauna tutte.
Pertanto che la sintesi tecnologica possa essere una soluzione di relazione o anche una nuova modalità che ci permetta di rimanere “alla giusta distanza” significa non avere proprio capito.
La relazione è espansione e contenimento
La relazione è espansione e allo stesso tempo contenimento. Nel corso della storia umana, almeno quella dell’ultimo secolo, la ricostruzione delle relazioni, peraltro mai cessate durante i conflitti mondiali (anzi, collante di sopravvivenza che ha partorito la Resistenza e non solo) si è caratterizzata per divenire cura, aiuto, solidarietà, condivisione.
Molti di noi, indipendentemente dalle loro origini, ricorderanno l’importanza che hanno avuto le relazioni parentali e amicali quali riferimenti e appoggi nella vita quotidiana, che era poi la vita di tutti, col fare fronte, pur se nelle differenze, alle ordinarie difficoltà di ricreare una vita del “post”, nella ripresa dell’ambito produttivo, culturale, artistico e di ben altro ancora.
Negli anni la relazione, che non si limitava a essere solamente cura, è cresciuta un poco stritolata dalle “specializzazioni”, dividendosi in “cura” da una parte e in “rapporti sociali” largamente intesi dall’altra.
Anche in questo caso la specializzazione estrema non ha portato del bene: ha creato ruoli con confini precisi, comportanti enormi sacrifici sociali, assenza di comunità e al contempo nella centralità umana nasceva una delega a soggetti più o meno professionali, che a pagamento avrebbero dovuto colmare le crescenti assenze relazionali. Penso ai bambini, penso agli anziani, penso più in generale ai soggetti fragili, come se la ripresa, lo sviluppo, il progresso potessero essere un’emancipazione collocata in una nuova scala di valori, dove le relazioni venivano “quotate”. Nel nome di chi? O meglio, di cosa? Questa è una domanda alla quale dovremmo rispondere ora nuovamente, daccapo, non accontentandoci delle analisi che ci siamo raccontati in passato. Poi abbastanza di recente è arrivato il fascio-leghismo, o meglio il sovranismo, con quanto di conseguenza, come reazione al cosiddetto fenomeno migratorio, come se spostarsi nel mondo possa mai essere considerato “un fenomeno”, in tal modo evidenziandone le problematiche in termini economico-produttivi, di costi, più che la portata umana spesso tragica e spesso confinata come tale proprio per assenza di equilibrata relazione. Sino ad arrivare a oggi.
Con quello che noi tutti stiamo vedendo, una necessità di mantenere le distanze, di eseguire e rispettare disposizioni organizzative di contenimento. Sì, contenimento anche delle relazioni, come erano diventate, ma non come erano impostate.
Si può quindi fare uno sforzo e aprire un’occasione: quella di andare oltre una visione che consideri l’utilizzo delle relazioni ai fini di cui si è detto e che non sacrifichi la dimensione nella quale non siamo parte, solo una parte.
La necessità esistenziale della relazione
Le relazioni non si vestono con un’età ben precisa. Ogni essere umano, ogni essere animale, ogni pianta ha la sua necessità di averne con reciprocità, altrimenti si crea un’inevitabile gerarchia di sopraffazioni, violente o meno poco importa, in termine di stravolgimento globale.
Di questo vorrei che parlassimo tra di noi, ma anche fuori da noi.
Il tema è indubbiamente immenso e richiede di essere focalizzato.
Il mio pensiero va:
• al mondo femminile, che della cura ha sempre fatto il suo DNA, insieme a un approccio solidale di genere, certo per potere sopravvivere, ma anche con l’obiettivo di fare crescere un’alternativa al mondo maschile. Domanda: a che punto siamo?
• ad alcune esperienze di vita diverse dalle nostre e che sono in corso di realizzazione e divenire. Penso al popolo kurdo e alla nascita della Repubblica del Rojava, al “suo” confederalismo democratico, che prevede una partecipazione collettiva e solidale in ogni sede amministrativa, politica e gestionale della Repubblica stessa, con il fondamentale principio, praticato nei fatti, della parità di genere e non solo (la donna è generatrice e quindi sta all’apice della valorizzazione e della responsabilità). Domanda: perché no?
• all’importanza, imposta dall’emergenza, di dare spazio alla creazione di nuove modalità del relazionare e dell’organizzarsi, sia nel modo di elaborare pensiero di vita (nessuno ne rimanga fuori ovvero nessuno si salva da solo) che nel modo di essere quotidiano: comportamenti, azioni e quant’altro necessario per un vivere dignitoso e rispettoso di tutti gli esseri. Domanda: solo umani?
• alla ormai impellente necessità di elaborare una strada per uscire dal patriarcato in tutti i suoi aspetti. Mi soffermo un attimo e prendo spunto da un testo tra quelli che ebbero maggiore eco anche nel dibattito italiano nella seconda parte degli anni ottanta in ambito femminista ed ecologista, La morte della natura di Carolyn Merchant (1979), dal quale emergeva un’attenta e dibattuta analisi, che affermava come la natura e il femminile vennero messe a morte insieme nell’Europa del Cinquecento-Seicento, nella transizione dal mondo-organismo al mondo-macchina, presupposto e cardine dei primi passi al tempo stesso della scienza moderna e del sistema capitalistico. Cito: «La natura animata vivente morì, mentre il denaro inanimato morto fu dotato di vita. Capitale e mercato avrebbero assunto sempre più gli attributi organici della crescita, della forza, dell’attività, della pregnanza, della debolezza, del decadimento e del collasso, oscurando e confondendo le nuove relazioni sociali sottostanti della produzione e della riproduzione che rendono possibili la crescita e il progresso sociali. La natura, le donne, i negri e i lavoratori salariati furono avviati al nuovo status di risorse “naturali” e umane per il sistema del mondo moderno.
Forse l’ironia ultima in queste trasformazioni fu il nuovo nome dato loro: razionalità». E ancora: «Scrivere la storia da un punto di vista femminista vuol dire capovolgerla: ossia vedere la struttura sociale dal basso e proporre alternative ai valori prevalenti […] Tanto il movimento delle donne quanto quello ecologico sono fortemente critici verso i costi della competizione, dell’aggressività e del dominio derivanti dal modus operandi dell’economia di mercato in natura e nella società. L’ecologia è stata una scienza sovversiva nel denunciare criticamente le conseguenze di una crescita incontrollata associata al capitalismo, alla tecnologia e al progresso, concetti che negli ultimi due secoli sono stati considerati con reverenza nella cultura occidentale». Quanta attualità e… domanda: quanta relazione esiste in queste considerazioni?
La relazione come respiro della Terra
Le relazioni vengono troppo spesso schiacciate dalle elaborazioni di pensieri, piani e programmi, che si collocano unicamente in un binario di ragionamento tra crescita/sviluppo da una parte e decrescita, “slow production”, dall’altra. Distorsioni strutturali? Indubbiamente l’attuale crisi, fatta semplicemente esplodere da un virus, aiuta a riflettere su come l’ambito relazionale, che si inserisce sulla base dello schema di sviluppo, fosse appoggiato, come tutto del resto, su una bomba pronta a esplodere per una qualsiasi evenienza e vicenda non contemplata nel suo divenire.
Disancoriamo l’aspetto strettamente produttivo e iniziamo a pensare che l’andamento delle relazioni, che, come risaputo, si basa sulla condizione di vita e sullo schema progettuale in atto, possa essere respiro della Terra e indicatore di “benessere umano”.
Mi pare che ci sia un profondo legame tra coscienza del limite e coscienza delle interdipendenze e tra etica della responsabilità ed etica delle relazioni.
Ora si tratta di non girare lo sguardo da un’altra parte.
Donatella Ianelli
avvocato penalista del foro di Bologna
componente la redazione di madrugada, componente la Segreteria Generale di Macondo