Bisogna evitare la morte a ogni costo?
È una fitta trama di eventi e relazioni, emozioni e riflessioni quella che Pat Patfoort tratteggia in Mamma viene a morire da noi domenica (Infinito Edizioni, 2016), così diversa dalle sue opere precedenti e successive.
Pat Patfoort è una biologa e antropologa belga nota in tutto il mondo come maestra di nonviolenza. Ha elaborato un metodo per la gestione nonviolenta dei conflitti basato sull’equivalenza, ovvero sul riconoscimento che ogni conflitto tra soggetti o istanze differenti mette in relazione elementi di uguale valore e dignità, e qualunque soluzione deve tenere conto di questa equivalenza sostanziale se non vuole ricadere nella violenza.
Pat Patfoort lo sperimenta da decenni con laboratori e interventi in aree roventi del pianeta, come pure nelle carceri o nelle scuole del suo paese, o nei rapporti interpersonali. I suoi testi tradotti in italiano sono per lo più saggi, libri di esercizi, suggerimenti per insegnanti ed educatori che desiderano praticare la nonviolenza con i bambini, ed è frequente che Pat li arricchisca con esempi tratti dalla propria vita, specialmente familiare (è la famiglia il terreno più arduo dove esercitarsi alla gestione dei conflitti).
Mamma viene a morire da noi domenica è altro.
Non è un manuale, anche se in alcuni tratti, non i migliori, l’autrice sembra ritrovare quell’incedere e spiegare al lettore la propria vita a scopo didattico. Molto di più è il resoconto della sua ricerca personale in un tempo così unico e singolare quale l’approssimarsi della perdita di un genitore, che ha chiesto di essere aiutato ad andarsene.
Il titolo del libro è spiazzante, non ha un equivalente nel nostro pensiero. Con una costruzione simile diremmo che mamma viene a pranzo da noi domenica, viene al mare, viene per fare qualcosa di bello insieme, non a morire. Il titolo scelto da Pat per il suo libro non è solo sorprendente e perciò efficace; suona quasi osceno, oltre che impossibile per il nostro paese dove non è ammessa l’eutanasia – e su questo riflette l’introduzione di Mina Welby. Eppure non mi sembra l’eutanasia il tema portante, o non il principale. Ciò di cui davvero ci parla è l’accompagnamento alla morte, con un interrogarsi continuo sul valore della vita e su che cosa renda la vita degna di essere vissuta.
Il testo ha l’andamento di un diario autobiografico. Raccoglie gli appunti che Pat Patfoort ha affidato a un registratore tra il 23 luglio 2010, giorno successivo alla prima visita del medico di famiglia alla madre nella procedura dell’eutanasia, fino al 12 marzo dell’anno successivo, alcuni mesi dopo la morte della mamma che avviene il 3 ottobre 2010.
L’autrice esplicita in più punti di voler vivere secondo il modello dell’equivalenza anche questa esperienza così densa di conflitti: interiori, con la madre, con gli altri familiari, con gli operatori sanitari, con l’organizzazione che presiede alla procedura dell’eutanasia. E non è facile provarci ogni giorno, ogni istante. Ci sono momenti in cui è sopraffatta dalla rabbia o dal dolore e lo confida con la disarmante sincerità che chiunque abbia seguito un suo seminario conosce, mostrandosi fragile e ammettendo lei per prima che non è semplice né naturale esprimersi in tutte le situazioni con benevolenza, comprensione e riconoscimento dell’altro. Eppure ci prova, a partire dai dettagli della cura all’anziana signora, malata e dipendente in tutto, che sua madre è diventata.
Sono tanti i ricordi del rapporto con la mamma, sia durante l’infanzia di Pat sia riferiti agli ultimi decenni. L’autrice dipinge la madre come una donna vitale, colta, intelligente, che ha sempre coltivato progetti. Pat dice in più punti di avere dedicato, per scelta, molte delle sue energie nell’aiutarla a raggiungere gli obiettivi che si poneva di volta in volta, senza giudicarli. Quando all’ottantesimo compleanno esprime il desiderio di partecipare a un safari, Pat non obietta – altri familiari lo faranno – ma s’industria per cercare, tra tante possibilità, la più adatta alle caratteristiche di sua madre in quel momento, tra entusiasmi e acciacchi. Lo stesso modo di procedere caratterizza Pat confrontandosi con ogni aspetto della vita della madre – dalla gestione del denaro alla cura della persona, dalla scelta del luogo in cui vivere a come impegnare il tempo – con l’intima convinzione che la possibilità di autodeterminarsi sia un tratto distintivo del sentirsi vivi, capaci e rispettati. Perciò il gioco prosegue anche quando il progetto è l’ultimo, il definitivo. La donna ha ormai 91 anni, non vede, non sente, ha dolori continui in tutto il corpo e vive in una casa di riposo dove non le piace stare. L’unico sollievo a cui riesce a pensare è porre fine alle sofferenze e Pat ancora una volta l’aiuta a farlo. Al tempo stesso non considera ozioso accontentarla in ciò che può rendere più viva la vita fino a quando c’è, come acquistare per lei gli abiti desiderati, cosa che la sorella considera uno spreco giacché sono abiti destinati a essere usati per poco.
Questo piccolo cenno lascia intravedere un altro dei temi toccati da Pat Patfoort: che cosa significa aiutare una persona non autosufficiente, e come si fa ad armonizzare le proprie scelte con quelle degli altri attori della cura. Intorno alla mamma c’è una rete ampia: oltre a Pat il marito, la sorella, le seconde e terze generazioni, e tutti i professionisti. L’alleanza tra loro è ossigeno per Pat che in alcuni periodi sente tutto sulle sue spalle e rischia di esserne schiacciata, eppure le incomprensioni non mancano. L’autrice sceglie di narrarle nel dettaglio, nel diario, per il bisogno di spiegarsi fino in fondo e probabilmente, a livello didattico, perché solo analizzando gli aspetti più minuti di un conflitto è possibile trovare una soluzione sufficientemente ampia da contenere le istanze di ciascuno.
Ecco, di nuovo, la sincerità di Pat. «Una domanda importante, per me, è fino a dove si può arrivare per ritardare la morte di una persona, nello specifico per rinviare l’eutanasia», annota il 16 agosto. «È un grande tabù, quello secondo il quale bisogna evitare la morte a ogni costo. Beh, semplicemente, io non sono d’accordo. Perché questo può trasformarsi in una forma di violenza, anche se “solo” nei confronti di una persona, non di molte». E più oltre (11 settembre): «A quale desiderio ci dobbiamo piegare e quali sono i nostri limiti? Recentemente qualcuno mi faceva notare quanto sia sublime sacrificarsi per una persona che ha bisogno di aiuto, mettendo momentaneamente tuta la propria esistenza al servizio dell’altro. Ma io mi dico che dobbiamo soppesare tutti gli elementi. Se una persona giovane, che ha la possibilità e la capacità di realizzare cose positive, lascia tutto per dedicarsi a qualcuno che di prospettive non ne ha praticamente più, allora l’equilibrio si rompe. Bisogna considerare i pro e i contro, soppesare la scelta più utile e sensata».
In queste parole si può sospettare una vena di cinismo, o di eccessiva razionalità, come fosse possibile mettere su una bilancia – soppesare appunto – quanto si dà e quanto si perde nell’aiutare qualcuno. Allo stesso tempo apprezzo la capacità che Pat ha di guardarsi dentro e di riconoscere il proprio limite. Più volte ripete lo stesso concetto: voglio fare per mia madre tutto quello che posso, nei limiti del rispetto verso me stessa. L’esaltazione del sacrificio che permea una parte della nostra cultura non pone questa condizione e c’è da chiedersi se sia giusto. Quando però il confine è pensare che sia venuto il momento per l’eutanasia della propria madre, la pesa diventa crudele. Il 2 settembre, giorno in cui porta una psichiatra dalla madre in casa di riposo affinché accerti ancora una volta il grado di consapevolezza con cui la donna chiede l’eutanasia, racconta di una notte insonne in cui il pensiero «ritorna in superficie, come qualcosa di colpevole, di riprovevole, di omicida, pur sapendo che sempre più persone ammettono che l’eutanasia sia giustificabile». E chiosa: «La differenza è che, ora, sono io stessa in causa: l’eutanasia è programmata col mio appoggio, mentre allo stesso tempo continuo a curare questa persona ancora molto viva». Si risolleva ricordando che la madre ha dolori fisici atroci, è ogni giorno meno capace di comunicare con gli altri e di trovare sapore nella vita ma, soprattutto, ha scelto da sola di andare incontro alla morte e lei la sta aiutando a morire come, in passato, a vivere.
C’è una soglia difficile, che sfiora il sacro, nei movimenti di Pat. Lei li vive e ce li consegna con tutte le contraddizioni, le lacrime, le incertezze, eppure fondata nel desiderio di aiutare la madre a fare ciò che desidera. Nessun giudizio è lecito, io credo, verso chi si trova a dire: «La differenza è che, ora, sono io stessa in causa». Quello che possiamo fare è ascoltarla, e lasciare che le sue parole risuonino in noi.
Elena Buccoliero sociologa