Vivere a Manaus

di De Vidi Arnaldo

Cultura amazzonica

Continua il mio studio mesopotamico sulla cultura amazzonica. Sono venuto qui troppo tardi: vorrei essere ospite-figlio dell’Amazzonia; condividerne la cosmovisione, i compiti, i dolori e le gioie. Ma non riesco ad apprezzare il mondo nel quale sto vivendo… come un novizio trasognato che non apprezza le realtà terrene. Si aggiunga che la cultura di Manaus non è né singola né allo stato puro, ma complessa e meticcia (e inquinata dalla pseudo-cultura della publicity del primo mondo). Manaus – mio osservatorio – è la capitale dell’Amazzonia che si estende per 9 dei 13 Paesi dell’America Latina ed è polo di alto interesse mondiale (secondo solo al Medio Oriente): qui arrivano persone e organismi d’ogni dove. I brasiliani si chiedono sospettosi: Perché nel misero Nordest brasiliano sono presenti zero ONG e nell’Amazzonia 350, più che in tutta la martoriata Africa?

L’interazione ambiente e cultura

La natura ai tropici è molto generosa: ottima frutta, ottimo pesce… e poche esigenze (né giacca né calzini, 12 mesi all’anno!). Ma la natura qui è madre-etiranna perché non si lascia controllare-modificare; bisogna metabolizzare perfino i diluvi. Il clima torrido dà «mollezza» e assuefazione. La gente non si sente stimolata a realizzarsi col lavoro come da voi, ma con le relazioni. Anche nella pastorale si dà importanza a incontri, riunioni, ritiri, gite-passeggi. E poiché i manauensi sono «anfibi», non deve mai mancare l’elemento acqua (p.e., la piscina anche nei ritiri).

Ma parlare di lavoro in clima freddo contro relazioni in clima torrido, è riduttivo. Confesso che la mia prima impressione è stata: qui la gente copula molto e lavora poco, un po’ come Francesco Saverio ad Alboino sull’Oceano Pacifico. Ma mi sto ricredendo: molti giovani hanno la giornata dura, di lavoro e studio, con appena uno scampolo di sonno. Un altro luogo comune che accettavo era l’equazione: Manaus = zona franca = commercio con esenzioni fiscali = paradiso fiscale. Scopro che nel mondo le zone franche sono 2.316 (!) e che Manaus non è un gigantesco duty free shopping, ma un polo industriale incentivato, per produrre ed esportare moto, televisori, set-top-box, autoradio…

L’economia

Avevo letto che l’economia degli indios è di condivisione e sobrietà. Senza scorte di cibo: «perché uccidere animali o vegetali per il domani se si trovano nella dispensa o madia naturale della madre Terra? Perché aumentare la produzione di mais, se l’attuale già dà il necessario quotidiano e un superfluo per la festa annuale?». Mentre i bianchi occidentali hanno ripudiato-violentato la madre Terra, hanno indotto bisogni artificiali e trovano nella scarsezza-e-insoddisfazione le molle del progresso, gli indios sono i figli dell’abbondanza, perché la (loro) madre Terra è ricca.

Ma l’economia a Manaus non è così ideale. Essa pare caratterizzata dalla mancanza di etica: i manauensi (gli abitanti di Manaus) appena possono manomettono i bilanci, si appropriano del denaro, fanno volontariato e poi ti denunciano, chiedono prestiti senza poi restituire… Questa che per noi è disonestà, forse si spiega con quella condivisione cui accennavo sopra e, più ancora, col cattivo esempio dato dai conquistatori e colonizzatori che hanno rubato il rubabile e condannato neri e indios al lavoro schiavo. Lo stesso capitalismo dipendente, praticato dal neoliberismo in Brasile, è marcato da sfruttamento. Ma allora qui, forse più che altrove, il nostro lavoro di solidarietà diventa problematico: i «benefattori» pensano che il denaro offerto sia soluzione e sia impiegato con un’efficacia da primo mondo; i «beneficiati» temono di essere ancora una volta «imbrogliati» e, furbizia per furbizia, cercano di approfittarne. Sapete la mia posizione: la solidarietà è un segno di buona volontà (una bandiera alzata agli occhi di Dio e della società) in vista della giustizia che è la sola vera soluzione.

La religione

Penso che la religione sia l’elemento locale più inquinato. Per gli indios tutto era insieme sacro e profano, in armonia. La religione non occupava un’ora al mattino della domenica (o poco più) ma era una partecipazione diffusa. Poi c’è stata la «conquista spirituale» che accompagnava la «conquista armata»; e recentemente è arrivato il pentecostalismo, tanto nei villaggi indigeni come nella città. Adesso la mia vicina di casa che s’è convertita, quando ora (n.d.r. prega) disturba il vicinato, sgridando il «maligno» e gridando a Dio. La popolazione si divide tra fedeli (incravattati e inbibbiati) e infedeli nei pub: armonia addio.

Ci sono troppe chiese e saloni di culto. Ci sono troppi furbi. L’apostolo Valdemiro Santiago martella alla tv che ha ricevuto la missione divina di riunire in tre anni un milione di «dizimistas» (fedeli che pagano le decime). Ho calcolato che, se gli riesce, arrafferà 20 milioni di euro al mese: le tasche dei poveri saranno il suo Eldorado!

Ma può gettare luce sul fenomeno una rilettura dell’exfariseo Paolo di Tarso che in Grecia deve confrontarsi con la religiosità della polis. Forse i saloni di culto rispondono a una necessità della città grande: essi offrono show edificanti (e gratis all’entrata). Canti a non finire. Sermoni apocalittici di predicatori narcisisti, tutto col supporto massiccio delle tv. C’è poi il corridoio coi 70 discepoli per liberare dai debiti e dal malocchio, la colonna di Dio, il tempio dei miracoli, il pane della moltiplicazione, il fazzoletto unto… In ultima analisi, è una fede lontana dall’impegno sociale, a proprio uso e consumo, diventata perfino moda e affare. Io spiego il fenomeno così: la globalizzazione, che ha scelto il calcio come suo sport, ha scelto la new age e il pentecostalismo come sua religione. Sento nostalgia di teologia della liberazione e di laicità!

Ma occorre ricordare che ci sono vari tipi di pentecostalismo. C’è quello manicheo dei predicatori del far-west, quello osannante… e quello gestuale-simbolico-depenalizzante. Con quest’ultimo la religione autoctona india ha qualche affinità, perciò pentecostalismo e «carismatismo» hanno trovato qui un terreno ideale.