Vi(v)a l’euro

di Panebianco Fabrizio

Sono anni che, immersi in una crisi economica lunga, siamo abituati a ragionare sulle emergenze dovendo però tenere l’attenzione alta sulle conseguenze di lungo periodo delle scelte economiche che i governi attuano. Si stanno facendo sempre più frequenti e irresponsabilmente forti le voci di chi vorrebbe un’uscita del nostro paese dall’euro. Frasi e ipotesi lanciate da chi vorrebbe cavalcare l’emergenza, dimenticando la necessaria dose di responsabilità in chi, da uomo pubblico, si espone su temi così delicati.

Cosa succederebbe, infatti, se l’Italia decidesse, o fosse costretta, a lasciare la moneta unica? Svariati uffici studi hanno analizzato questa possibilità, elaborando previsioni tutt’altro che rosee.

Tra i sostenitori di un’uscita dall’euro c’è chi sottolinea la possibilità di svalutare la nostra moneta per poter rendere le nostre esportazioni più competitive. È, questa, una visione molto miope poiché ritiene che la chiave per esportare a lungo sia quella del contenimento dei costi dei prodotti esportati. Non ci si rende però conto che, rispetto a 20 anni fa, ci sono nazioni che esporteranno a prezzi sempre inferiori rispetto ai nostri. Di conseguenza non è una strada praticabile a lungo. Questa politica ridurrebbe di molto gli incentivi a innovarsi: perché investire nel migliorare i prodotti quando basta svalutare per esportare? È chiaro che senza innovazione le nostre esportazioni non saranno destinate a sopravvivere a lungo. Si tratta di una soluzione che vuol far vincere la pigrizia sull’imprenditorialità.

Una uscita dall’euro comporterebbe danni ancora maggiori. Innanzitutto la svalutazione immediata comporterebbe un calo del potere d’acquisto degli italiani di circa il 60% (dati UBS).

In questi contesti una svalutazione comporta un parziale fallimento dello Stato, che non è più in grado di rimborsare parte del debito pubblico. Oltre al danno immediato che questo generaànei creditori (e molte famiglie italiane detengono titoli di Stato), i futuri investitori richiederanno tassi molto più alti per concedere finanziamenti all’Italia. Questi tassi elevati farebbero schizzare l’inflazione, con perdite annuali stimate (dati UBS) di circa 3.500 euro a cittadino.

Chiaramente un’uscita dall’euro metterebbe il nostro paese di fronte alla necessità di pianificare una decrescita sostenibile del debito pubblico da un lato e credibile dall’altro. Non potremmo più, come nei decenni passati, pensare di non preoccuparcene.

Ma i costi di cui parliamo sono solo economici? Non dimentichiamoci che l’euro è stato un passaggio fondamentale nel processo di pacificazione e unificazione che l’Europa ha scelto negli ultimi 70 anni. Una forma di cooperazione non sempre facile, ma che cerca di promuovere una convivenza pacifica tra nazioni che, per secoli, si sono combattute. Senza un’Europa davvero unita, che aiuti nella gestione di queste tensioni, non ci può essere certezza circa un futuro pacifico dell’area europea.

Facendo parte della prima generazione di cittadini che si sentono davvero europei, che sentono le differenze nazionali sempre più sfumate e che considerano l’Europa la «nazione» entro la quale muoversi per costruire la propria vita, quest’ultima è un’urgenza molto sentita.

Occorre quindi premere perché, invece di proporre di uscire da un progetto faticoso ma ambizioso, questo sia il momento per ripensare i meccanismi degli incentivi presenti nello schema euro per poter iniziare un’integrazione ancora maggiore. Integrazione necessaria all’Europa per poter affrontare con sufficiente voce in capitolo le sfide mondiali dei prossimi decenni.