Un lavoro in mille pezzi

di Oddi Corrado

Sembra che da un po’ di tempo in qua sia diventato difficile parlare di lavoro e ancor più di lavoratori. I giornali che «fanno opinione» sono invasi, soprattutto da quando è stato approvato il Jobs Act, dalle statistiche e dalle interpretazioni su quanto sarebbero cresciuti l’occupazione e il PIL in quest’ultimo anno, per giungere quasi invariabilmente alla conclusione che l’Italia starebbe ripartendo. Ben pochi, invece, si occupano della condizione concreta dei lavoratori, di cosa sta effettivamente succedendo all’interno della dimensione lavorativa e, più in generale, di quale sia il ruolo che il lavoro ricopre nelle nostre società, le cosiddette «avanzate».

Vale la pena chiedersi perché ciò si sta verificando. A me pare che all’«occultamento del lavoro», della sua condizione materiale concorrano almeno tre grandi fattori.

Il primo fattore è che, dagli anni dell’affermazione del neoliberismo – il primato della finanza sull’economia reale – fino alla sua crisi odierna, in buona sostanza da almeno 40 anni in qua, classi e gruppi dirigenti dominanti sono deliberatamente intervenuti per ridurre il ruolo sociale, il peso economico e politico del lavoro nelle società avanzate.

I trenta gloriosi

Il compromesso tra Capitale e Lavoro che si era realizzato nel periodo che gli storici hanno battezzato i «trenta gloriosi» – gli anni che vanno dal secondo dopoguerra a tutti gli anni settanta del secolo scorso – è definitivamente alle nostre spalle e fa parte solo degli archivi. Quella fase, basata sullo sviluppo dei consumi di massa di beni durevoli (dall’auto agli elettrodomestici), sulla fabbrica come luogo centrale della produzione di ricchezza, aveva generato, almeno come tendenza, un’omogeneità sociale del mondo del lavoro (la classe operaia) e un suo peso crescente nella distribuzione del reddito e nel suo ruolo sociale. Dentro questo quadro stavano anche l’affermazione di una condizione in pratica di piena occupazione, il diffondersi dello stato sociale, l’irrobustimento della democrazia rappresentativa.

Tutti questi elementi, caratteristici di quella forma di capitalismo produttivista-keynesiano – assieme alla riduzione della possibilità di sfruttamento indiscriminato dei Paesi poveri – sarebbero però diventati incompatibili con la creazione di margini di profitto sufficienti per quei poteri e quel modello economico che continuava comunque a fondarsi su di essi. C’è un dato illuminante. Lo evidenzia Luciano Gallino, quando rileva «una sostanziale concordanza sul fatto che nelle maggiori economie del mondo, quelle dei Paesi del G-7, il tasso di profitto lordo – ante imposte – delle grandi imprese del settore non finanziario tra gli anni ’60 e gli anni ’80 abbia subito una forte caduta, con una riduzione stimabile in circa il 50% a seconda dei settori e degli anni ritenuti come inizio o fine periodo».

La rivoluzione neoliberista

Peraltro, quella riduzione di ruolo sociale e politico del lavoro non si sarebbe potuta realizzare per un puro atto di volontà. In realtà, ciò che è successo è stata una vera e propria «rivoluzione» del modello produttivo e sociale, quella che si può definire come la fase neoliberista del capitalismo. Questo è stato il secondo potente fattore che ha agito nel far sì che oggi il lavoro appaia svalorizzato, diventato quasi invisibile, dimenticato nelle narrazioni del mondo.

Tale trasformazione si è basata sulla globalizzazione dei mercati e dei prodotti, con uno spostamento massiccio della produzione materiale verso i Paesi meno sviluppati e, ancor prima, su un poderoso salto tecnologico, che l’ha resa possibile e che, in sostanza, si è sviluppato attorno alle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione, che hanno ristretto i tempi e avvicinato i luoghi della produzione e del consumo. Ancora: per questa via, la finanza è diventata il meccanismo fondamentale di realizzazione di profitti, il mercato ha invaso e reso merce nuovi ambiti un tempo a esso sottratti, ridimensionato lo Stato Sociale, modificato in profondità le stesse forme della politica e della democrazia, ormai sempre più rattrappita e separata non solo dall’espressione della volontà popolare, ma persino dalla stessa classica «centralità del Parlamento».

Ritorno al passato

La forma di capitalismo che si è prodotta assomiglia molto più al capitalismo selvaggio di fine ‘800 che a quello regolato che abbiamo conosciuto nella seconda metà del ‘900.

In questo quadro, il lavoro è stato «aggredito», reso nuovamente subordinato. Nelle società cosiddette avanzate hanno agito almeno due processi di carattere strutturale: il primo è stato l’accresciuta pressione competitiva che si è abbattuta sul lavoro per effetto del gigantesco spostamento della produzione verso i Paesi meno sviluppati (all’inizio di questo processo), dalla Cina all’India, ai Paesi latinoamericani, ad alcuni dell’Africa, che ha significato sia il venir meno della piena occupazione, sia un potere di ricatto – e quindi di contenimento salariale – rispetto al basso costo del lavoro là presente. Il secondo, che si combina e rafforza la tendenza descritta, è quello di una forte «complessificazione» del lavoro, anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie informatiche e della comunicazione.

Assistiamo così alla scomparsa di quella che veniva chiamata omogeneità sociale del lavoro. Anche se, sia detto per inciso, bisogna guardarsi dal pensare che questa omogeneità sia stata completa nel passato recente o lontano. Va infatti considerato come un elemento perdurante nelle nostre società la varietà delle forme che il lavoro assume, sia dal punto di vista delle tipologie contrattuali, con tutele diversificate, sia da quello della sua collocazione nel processo di produzione dei beni e dei servizi, sia ancora rispetto alle conoscenze e alle professionalità espresse nella propria condizione lavorativa.

La novità a cui assistiamo è che, a differenza del passato, il lavoro non garantisce necessariamente un reddito permanente in grado di poter vivere dignitosamente e che – non sembri un paradosso nell’epoca dell’economia finanziarizzata – compare appunto il «lavoro povero», quello che deve fare affidamento ad altre forme di sostegno, dal debito alla rete familiare, per comporre un reddito minimamente accettabile.

Dentro il tubo di un caleidoscopio

È come se fossimo immersi in una sorta di caleidoscopio in cui si intersecano figure che vanno dall’operaio addetto alla catena di montaggio (ce ne sono ancora, forse più di quanto comunemente si pensi) al lavoratore che eroga servizi pubblici, dal lavoratore «autonomo» e professionalizzato che si mette sul mercato come free-lance ai lavoratori precari che svolgono

mansioni di scarso contenuto professionale, dal ricercatore specializzato al nuovo «schiavismo» dei migranti che raccolgono pomodori, rimandando alla pratica mai estinta del caporalato.

Tutti questi lavoratori, in queste e altre forme, sono sì sostanzialmente accomunati da una condizione di subordinazione, ma di cui si fa fatica a trovare un filo che li possa far pensare – e prima di tutto pensare loro stessi – come soggetti che socialmente condividono una situazione con tratti simili e unificanti.

Tutto questo è ancora più accentuato dal terzo fattore che sta contribuendo a rendere il lavoro dimenticato e svalorizzato, e cioè l’indebolimento e il ripiegamento delle forme organizzate di rappresentanza del lavoro. Lasciando qui da parte il tema fondamentale della rappresentanza politica, non si può però non riflettere sulle trasformazioni che hanno investito la forma classica di rappresentanza sociale del lavoro, ovvero la rappresentanza sindacale.

Un sindacato nell’imbuto del corporativismo

Qui il punto non è solo quello evidenziato da molti commentatori, che troppo spesso rischia di ridursi a un pensiero banale se non addirittura interessato, e cioè che il sindacato sarebbe rimasto abbarbicato a presidiare il suo insediamento tradizionale, quello dei lavoratori tutelati, degli «insiders», disinteressandosi del lavoro precario, quello dei giovani e degli «outsiders».

Il ragionamento di fondo, in realtà, riguarda invece, e molto di più, il fatto che il sindacato si sta progressivamente adattando a quella diversificazione dei lavori, limitandosi semplicemente, nel migliore dei casi, alla rappresentanza degli interessi di quella frammentazione in una logica di tipo sostanzialmente «corporativa» e dismettendo un ruolo «generale», di rappresentanza tendenzialmente unificata dei lavori, di costruzione di pensiero e pratiche capaci di delineare un orizzonte di trasformazione del modello produttivo e sociale.

Insomma, si capisce da dove nasce l’odierna condizione dei lavori, nuovamente subordinati e con poca voce. Meno facile è, ovviamente, indicare una strada per invertire questa tendenza. Ma il compito di queste poche righe è più quella di cercare di capire ciò che è successo e porre domande che non costruire risposte. Queste non potranno che essere il risultato di una ricerca e di una discussione collettiva e, ancor più, della costruzione di pratiche e azioni che si misurino con questa mutata realtà.

Ciò che mi sento di dire, in modo sommesso, è che forse ci servirebbe, con la pazienza e la passione del caso, tornare a indagare i processi reali che si producono nelle singole situazioni in cui il lavoro viene espresso, guardare ai conflitti e alle resistenze che lì si generano, avere uno sguardo critico e partecipe nelle dinamiche che investono le forme di organizzazione dei lavoratori. Forse non è tanto, ma potrebbe comunque costituire un buon punto di ripartenza.

Corrado Oddi
ex funzionario Cgil, bibliotecario e delegato sindacale