Un fiore che non perderàà il suo colore
Le tue parole erano musica.
«Come Dio sotto la religione
come l’amore sotto la convenzione
come la realtà sotto l’illusione
come un mattone sotto la distruzione
Così quando il sole muore
fiore perdi il tuo colore
le qualità che ti hanno reso vero
ma chi lo dice che il fiore è nero».
[Nomadi, Fiore nero]
La musica è stata per te una passione.
Con emozione mi raccontavi di aver cantato l’Ave Verum di Mozart su una cima. In alta quota. E grande è stata l’emozione e la fusione tra creato e anima. Segni tangibili della presenza e della bellezza di Dio. La musica è un linguaggio universale e forse per questo ti piaceva. Arriva a tutti e tocca in profondità. Come te. I tuoi occhi carismatici e azzurri erano musica per chi si sentiva scrutato e osservato.
Eri curioso e volevi conoscere anche gli artisti del momento. Alle feste di Macondo non è mai mancata la musica. In ogni sua forma. Ricordo quanto ti piacesse una canzone dei Nomadi, Fiore nero. E poi Amen di Gabbani. Ecco, ora che non sei fisicamente qui, immagino che ascolti musica con gli angeli.
Le tue parole erano musica, un canto fermo nella vita di tanti e tante che ti hanno conosciuto. Anche il tuo funerale è stata quasi una festa, un canto di lode a Dio e agli uomini per quanto hai saputo trasformare la tua vita in gioia. Amico di tanti passi, anche quelli del dolore.
Quando ho saputo della tua scomparsa, ho avvertito il bisogno di ascoltare musica, pensando al tuo sguardo sorridente. Credo che non siano solo ricordi personali, ma vissuto di tanti amici che, nella loro vita, hanno incrociato i tuoi passi e il tuo sguardo.
Il nostro cammino nella vita è precario, si evolve, a volte regredisce e sappiamo che c’è un punto all’orizzonte tanto fermo quanto importante e difficile a volte da attraversare: la morte. Nel frattempo, può succedere di mettere sotto il moggio la lampada, oppure farla risplendere, aprirsi e fiorire alla vita o nascondersi. Il tuo incontro, usando il linguaggio della scienza, è stato per me un punto di svolta. Si tratta – come scrive uno scienziato di punti imprevedibili e decisivi che cambiano il corso degli eventi. Spesso sono sottili imperfezioni o rotture di simmetria che scatenano processi evolutivi dagli esiti incerti.
A te, Giuseppe, sentinella al servizio della vita.
Ecco, credo che tu sia stato un punto di svolta. Soprattutto per il mio essere prete. La tua fede nuda e filiale, il tuo amore obbediente e fedele alla vita e dunque a Dio, più che alle strutture umane, la tua capacità profetica e la tua presenza costante e significativa, mi hanno fatto vedere incarnata la figura di un prete autentico. Un guaritore ferito, come direbbe il teologo olandese Henri Nouwen. Avevi lenito tante ferite nella tua vita. Le raccontavi spesso. Poi le avevi trasformate in canto di liberazione. Dio, le donne, i bambini e i poveri avevano costituito gli assi portanti di quella casa meravigliosa in cui anche io ho trovato riparo.
A te, Giuseppe, devo un grazie. Mi ripetevi sempre che ciò che davvero fa cambiare le persone e il mondo è la gratuità. E mi invitavi a riconoscerla ovunque. A praticarla. Il tuo sguardo profondo capace di scorgere anche i più impercettibili segnali, ti rendeva una sentinella, ma mai arrogante. Sempre al servizio della vita.
Oggi Macondo, la tua grande casa, si sente forse un po’ orfano.
Ma ci lasci una lezione indelebile che è capace di aprire sempre nuove vie anche nel deserto che ci troviamo a volte a vivere.
Nuovi segni, nuove speranze, nuovi racconti ci attendono. Tanti passi. Come quelli che ti avevano portato anche nel mio Molise.
Che incontro! Ogni luogo che ti ha visto, ha fatto germogliare un segno. Lo smarrimento, perciò, oggi deve trasformarsi in una nuova tappa in cui il «noi» diventa sintesi feconda di ciò che hai insegnato. Siamo terra che accoglie e feconda. Non siamo sterili e nemmeno affranti. Camminatore instancabile, ci affianchi ancora e ci spingi ad alzare lo sguardo. La vita ci attende e tu ci sorridi.
A te, Beppin, un saluto di tenerezza come quello che ti hanno voluto dare tanti amici al tuo funerale. Che storia, che meraviglia…
e ora non scrivo la parola fine ma, come nelle migliori avventure, TO BE CONTINUED!
Il suono del mattino.
«Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE.
È il motto intraducibile dei giovani americani migliori.
Me ne importa, mi sta a cuore.
È il contrario esatto del motto fascista: Me ne frego».
[Lorenzo Milani] Lo riconosco quel suono. La campanella che, inesorabile, detta i tempi della scuola sin dal suo inizio. Mi sembra una delle poche cose rimaste uguali in questa nostra scuola italiana in continua trasformazione.
Quest’anno ho fatto un’esperienza meravigliosa. Ho accompagnato a scuola, quasi fossi il papà, una bambina della comunità (di Arché) al suo primo giorno. Che emozione. Sua e mia. Non ho rivisto i grembiulini azzurri o blu con il nastro. Che ricordi quando, nel 1986, al mio primo giorno di scuola, con grembiule e nastro rosso di raso ben stirato e reso in un bel fiocco dal mio papà, vado solo con la cartella celeste verso scuola.
Ho visto, invece, bambini vivaci accompagnati dai loro genitori evidentemente più emozionati e impacciati di loro. Tutti insieme per ascoltare le indicazioni della dirigente e la lista della spesa ovvero le tante troppe cose da portare per supplire alle carenze della scuola. Avvertimenti disciplinari e questioni burocratiche.
Oltre a qualche accenno di orgoglio sulle tante attività proposte.
E subito la presentazione dei tanti maestri. E io nella mente rivolgevo lo sguardo a quel maestro, unico, che mi accompagnò nei primi tre anni di scuola, prima che fosse introdotta la riforma che introduceva più maestri, Antonio. È morto solo qualche anno fa, ma per me resta il maestro. Che ricordi in quella scuola che mi ha sicuramente insegnato a scrivere e contare. Oggi non so. Più schede, riunioni, piani educativi, obiettivi, verifiche e, mi sa, poca sostanza. Aule non sempre all’altezza della situazione. Talvolta attrezzate, digitali e tecnologiche ma fredde. Non sono contro il «progresso» nella scuola, ma contro il suo inaridimento. Che bella quella scuola poverissima vista in Congo: senza banchi e per tetto terra e foglie. Fragile, ma ricca di umanità. E bambini assetati di imparare, che portavano a scuola dei contenitori che al ritorno riempivano d’acqua per la loro famiglia. Eppure felici.
Barbiana, andata e ritorno
La piccola che accompagno ha lo sguardo un po’ perso, incuriosito da tante novità; i suoi amici e vicini di banco sono anch’essi presi dalle novità e molto attaccati alla mamma. Lei mi guarda e si sente più sicura. I nomi che dovrà imparare, che sono bambini con cui giocare, sono spesso difficili anche per me. Segno di una scuola ormai di fatto, e per fortuna, multietnica.
La scuola resta la più gande palestra di umanità, talvolta anche più della famiglia dove spesso cresce più l’individualismo narcisista dei bambini che le loro vere capacità umane e intellettuali.
Per fortuna si vedono tanti bambini, molte classi. Qualcuno però non risponde all’appello. Inesorabile appello che era un momento speciale per tutti. Ogni assenza faceva male. Era qualcuno che mancava e il giorno dopo portava la sua giustificazione scritta sul diario: assenza per motivi familiari. Spesso, però, non è così. L’Italia ha un tasso spaventoso di dispersione scolastica. Una vera piaga che colpisce in modo più forte le fasce più deboli. E qui, mi torna in mente don Milani. Salire con i ragazzi della scuola alberghiera, dove ho insegnato per un breve periodo, verso la scuola di Barbiana è un’emozione indelebile. Loro, chiassosi e distratti, più invece attenti all’ascolto del discepolo di don Milani che raccontava la sua scuola. Diversa ma efficace. Lettera a una professoressa è forse il manifesto di denuncia più forte sulle diseguaglianze e il libro più bello sulla speranza che davvero si può e si deve cambiare il sistema che spesso amplifica piuttosto che assottigliare le disuguaglianze. I care è il moto di una scuola e di una società che se ne frega del futuro e di ogni persona. La scuola rende liberi nelle proprie diversità e uguali in dignità, ecco perché aspetto che davvero ogni bambino, anche se straniero, che frequenta la scuola sia ritenuto italiano. La scuola genera cittadini e se non lo fa è una perdita grave.
Prima che un’azienda, che fa i conti con i problemi di finanza, strutture e organico, in un precariato che mina alla base ogni azione educativa, la scuola dovrebbe essere al centro di ogni azione culturale, politica e sociale.
La bambina dopo un po’ mi guarda con gli occhi sorridenti e sceglie il suo posto. Si guarda intorno e sa che comincia una nuova entusiasmante avventura. Ricordi miei ed emozioni presenti si fondono. Ma poi il suono della campanella inesorabile mi riporta al presente, non si finisce mai di imparare e tornerei volentieri su quella cattedra a insegnare. Sì, in-segnare. Segnare una strada da percorrere insieme. Come scrive Massimo Recalcati in suo bellissimo libro sulla scuola: «Un insegnamento degno di questo nome non inquadra, non uniforma, non produce scolari, ma sa animare il desiderio di sapere. Per questa ragione ogni insegnamento che sia tale muove l’amore, è profondamente erotico, è in grado di generare quel trasporto […] che in psicoanalisi chiamiamo «transfert».
Adriano Cifelli fondazione Arché, Milano