Tradimento

di Locci Adolfo, Khadija Dal Monte Patrizia, Ravazzolo Roberto

Nella Torà

Vorrei partire dalla definizione della parola tradire, presa da un noto dizionario di lingua italiana: «Venire meno a un impegno assunto, a un obbligo morale, a un dovere cui si era vincolati; ingannare una persona violando la sua fiducia».

Nella Torà, il Signore trasmette una serie d’insegnamenti volti a educare l’essere umano in modo che possa essere responsabile, capace di discernere il bene dal male. Tuttavia, voglio porre l’accento solo sulla prima parte della definizione citata, usando il seguente aforisma tratto da uno dei testi di etica ebraica più importanti, il Trattato delle massime dei Padri: «Disse Rabbi Yehoshua ben Levì: ogni giorno una voce esce dal monte Chorev che proclama: guai a coloro che sono motivo di offesa per la Torà. Poiché chiunque non si occupa della Torà è chiamato Nazuf com’è detto (Mishlè 11,22): come un anello d’oro al naso del maiale tale è una bella donna priva di senno. Così pure è detto (Esodo 32,16): le tavole erano opera di D-o, la scrittura era scrittura di D-o «Charut – incisa» sulle tavole. Non leggere «Charut – incisa» ma «Cherut – libertà», poiché non si è considerati uomini liberi se non ci si occupa di Torà. E chiunque si dedica allo studio assiduamente, si eleva in santità com’è scritto (Numeri 21, 19): da Mattanà a Nachaliel e da Nachaliel a Bamot» (Avot 6, 2).

Il maestro che insegna questa massima è un saggio del III secolo dell’Era Volgare. Fondò una scuola a Lod e si recò spesso a Roma per raccogliere offerte per la sua attività. È uno dei primi «inviati di terra santa», che costituirono uno dei più saldi legami fra gli esuli ebrei e la terra d’Israele. Con un’immagine di natura nostalgica, l’autore di questa massima si occupa di una questione al suo tempo cruciale, il rispetto di un impegno. Una voce (Bat Qol), quasi come un suono o un soffio di vento, ogni giorno ci richiama alla memoria il luogo della nostra consacrazione come «reame di sacerdoti e nazione consacrata».

Questo richiamo è un’esortazione per coloro che negligentemente non osservano lo studio della Torà.

Chi diserta lo studio è considerato Nazuf. L’etimologia di questa parola non è chiara; alcuni interpretano il termine in maniera grave: Nazuf-Menuddè, scomunicato. La frase dei proverbi è adoperata dall’autore per indicare un’analogia molto forte: l’anello d’oro sta al maiale o la bellezza a una donna stolta, come colui che possiede la Torà e deliberatamente si disinteressa di essa, non la studia, non la segue, la tradisce.

Chi diserta dallo studio della Torà, o colui che la corrompe con interpretazioni scorrette, pensa di essersi sottratto alla schiavitù della parola del Signore che regola il nostro comportamento, pensa di aver conquistato la propria libertà. Non è così, non esiste libertà senza legge; libero è solo chi conosce il suo dovere, che osserva gli insegnamenti divini scesi dal cielo.

Il nostro saggio vuole suggerire che studiare e insegnare, mantenere, rispettare e tramandare la Torà, rappresentano per l’individuo l’evoluzione, il progresso, un mezzo per una continua elevazione delle azioni umane a un livello superiore di quello puramente materiale.

Questo concetto è poggiato sul verso biblico riportato alla fine di questa massima da Mattanà a Nachaliel e da Nachaliel a Bamot (Numeri 21,19). Secondo il Talmud, i nomi di queste località dove gli ebrei, usciti dall’Egitto, sostarono durante il loro viaggio per raggiungere la terra d’Israele, hanno un loro significato proprio.

Volendo parlare di un viaggio spirituale verso l’alto, quelle tre tappe significherebbero che la Torà, se non è tradita, diventa possesso per chi la studia, la insegna e la tramanda, gli permette di essere se stesso sempre e di raggiungere le più alte vette della santità.

Adolfo Locci, rabbino capo comunità ebraica di Padova

Nel Corano

Dio non ama i traditori – ci dice la rivelazione coranica – ponendo in luce alcune caratteristiche del tradimento: esso si realizza nell’ombra, è marcato quindi dal bisogno di nascondere, e se esteriormente è tradire una persona, in verità è se stessi che si tradisce. Il tradimento, infatti, è vendere la verità nell’illusione di accrescere ciò che si ha o ciò che si è… Molte volte ritorna nella rivelazione islamica questo concetto che ogni peccato, ogni azione cattiva è prima di tutto un andare contro se stessi, un perdersi…

«Non discutere in nome di coloro che tradiscono loro stessi. In verità Allah non ama il traditore inveterato, il peccatore. Cercano di nascondersi agli uomini, ma non si nascondono ad Allah» (IV,107-8).

«L’uomo si girò un’altra volta. L’ombra inseguitrice s’acquattò nel cono oscuro di un androne deserto. «Solo un’altra volta, si disse, l’ultima»… Pazientemente raccolse le ombre, non ne trascurò nessuna. Poi di tutte le ombre fece un’altra notte. Più scura, impenetrabile. Ci si infilò e sparì» (Hamza Roberto Piccardo, Poesie).

Se il tradimento è accompagnato dall’oscurità, questa non basta per celarlo a Dio, poiché Allah vede ogni cosa, niente è a Lui nascosto, ed è davanti a Lui che prima di tutto si pone la responsabilità umana: «Egli conosce il tradimento degli occhi e quel che i petti nascondono. Allah decide con equità, mentre coloro che essi invocano all’infuori di Lui, non decidono nulla. In verità Allah è colui che tutto ascolta e osserva» (XL,19-20). Chi tradisce segue le orme del traditore per antonomasia, colui che desidera far perdere gli uomini, contro di lui e contro coloro che ordiscono trame di nascosto, l’unica arma vincente è la fede nell’Altissimo, certa e confidente:

«… In verità, Satana è il traditore degli uomini… A ogni profeta assegnammo un nemico scelto tra i malvagi. Ti basti il tuo Signore come guida e ausilio!» (XXV, 29).

Alla segretezza di colui che tradisce, il Corano contrappone quella in cui alberga l’invocazione umile del credente che cerca la grazia del suo Signore:

«Invocate il vostro Signore umilmente e in segreto. Egli, in verità, non ama i trasgressori. Non spargete la corruzione sulla terra, dopo che è stata resa prospera. InvocateLo con timore e desiderio. La misericordia di Allah è vicina a quelli che fanno il bene» (VII,55-56).

Il tradimento è un’esperienza umana in cui un giorno o l’altro ciascuno di noi si può imbattere, se esso è chiaramente sanzionato dall’Altissimo, a noi il diritto di difenderci se aggrediti, ma soprattutto aver misericordia e perdonare… Dio non ama i traditori, ma ama i generosi…

«In verità, Allah difende coloro che credono. Allah non ama il traditore ingrato. A coloro che sono stati aggrediti è data l’autorizzazione [di difendersi], perché certamente sono stati oppressi e, in verità, Allah ha la potenza di soccorrerli. Se Allah non respingesse gli uni per mezzo degli altri, sarebbero ora distrutti monasteri e chiese, sinagoghe e moschee nei quali il Nome di Allah è spesso menzionato…» (XXII,38-40).

«Non cesserai di scoprire tradimenti da parte loro, eccetto alcuni. Sii indulgente con loro e dimentica. Allah ama i magnanimi» (V,13).

Patrizia Khadija Dal Monte, teologa, membro del consiglio direttivo UCOII

Nel Nuovo Testamento

Nel greco classico il verbo che esprime l’azione del tradimento è prodidomi, presente nel Nuovo Testamento una volta soltanto (Rm 11,35). Al suo posto viene usato paradidomi, verbo ambivalente che può avere tanto il significato di dare, trasmettere, concedere, quanto quello appunto di consegnare una persona in mano a qualcuno, abbandonarla. Per gli evangeli il tradimento per eccellenza resta quello consumato da Giuda. Seguiamo il racconto di Marco, che sembra il più antico e quindi il più vicino agli avvenimenti narrati, un racconto molto umano e per questo, forse, più vicino alla sensibilità e concretezza dell’uomo moderno.

Mentre erano a mensa e mangiavano, Gesù rivela che uno dei presenti l’avrebbe tradito: uno dei dodici, colui che intinge con me nel piatto (14,20). Il prendere direttamente il cibo dal piatto comune con le proprie mani era prassi abituale. Ora però quel gesto di condivisione e di amicizia cambia significato ed esprime rottura, lontananza, rifiuto. C’è forse l’eco del salmo 41: anche l’amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno. Giuda tradisce perché si era sentito tradito, aveva riposto in Gesù delle attese che non avevano trovato realizzazione. Fermare Gesù non era solo una rivincita personale, un riprendere in mano le redini della propria vita, era piuttosto un salvare altri, e in primis proprio Gesù, da fallaci speranze e inutili illusioni. Per lui quello che stava coltivando in cuore era l’ultima carta da giocare per salvare Gesù, gli altri, tutto Israele. Forse in questo momento lui si considera ancora amico e non capisce perché sarebbe meglio per lui non essere mai nato. Il tradimento pesa e scotta solo dopo essere stato consumato.

Anche quando arriva al Getzemani per la cattura, compie un gesto che è di amicizia, ma che da questo momento in poi si carica di una ambiguità insanabile: quello che bacerò è lui; arrestatelo e conducetelo via, dice (14,4). L’interpretazione che ne dà Giotto nella Cappella degli Scrovegni è formidabile. Giuda nello stringere Gesù tra le braccia, lo avviluppa col suo mantello giallo, la nota più squillante dell’intera composizione. L’attenzione di chi guarda si concentra così sul significato dell’episodio: l’amicizia si è ormai trasformata in ipocrisia. Anche i due visi sono studiati in modo da rendere le differenti situazioni psicologiche: da un lato il Cristo, più alto, guarda serenamente e fermamente, con la consapevolezza di un destino liberamente accettato, dall’altro Giuda, col volto ambiguo e sfuggente ormai conscio dell’abiezione dell’atto che sta per compiere.

Dopo quel bacio, di Giuda si perdono le tracce, fagocitato dalla disperazione. Dante lo mette nel più profondo dell’inferno con i traditori della patria (Bruto e Cassio) ma, come scriveva don Mazzolari, Giuda è nostro fratello. Conoscete voi il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi? L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. A un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione? Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa!

Roberto Ravazzolo, direttore Centro Universitario di Padova