Tra politica e diritto. Con tante forzature
Brevi spunti sull’autunno caldo della Catalogna
Un’eccedenza politica
Il referendum catalano del 1° ottobre 2017 ha attirato l’attenzione di tutti: un po’ per la forza del quesito («Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di Repubblica?»), un po’ per la forza che il governo spagnolo ha utilizzato per tentare di bloccarne sia pur parzialmente lo svolgimento (schieramento della Guardia Civil, assalto ad alcuni seggi, cariche di piazza…).
Non c’è dubbio, in effetti, che di forzature si sia trattato, in entrambi i casi. Ed è per questo che il dibattito pubblico si è subito infiammato.
A chi ha reagito stigmatizzando la violenza – e l’imbarazzante impaccio… – con cui uno Stato ha provato a impedire lo svolgimento di una consultazione pacifica già dichiarata di per sé nulla dal Tribunal Constitucional (che bisogno c’era, dunque, del «pugno di ferro»?) si è presto contrapposto chi ha evidenziato l’assurda ostinazione dell’Esecutivo di Barcellona, specialmente a fronte dell’impraticabilità immediata dei suoi obiettivi (e, con tutta probabilità, della loro dubbia sostenibilità economica…).
Un dato, però, è parso subito chiaro.
Di «diritto», in questa contingenza, c’è poco. O meglio, ce n’è – volendo – moltissimo, perché ci si trova veramente dinanzi a un laboratorio politico-istituzionale di grande rilevanza. Ed è da un bel po’ di tempo che nell’Europa prospera e pacifica (fatta eccezione, quindi, per i Balcani dei primi anni Novanta…) non si davano tentativi così radicali e sofferti di mutazione esplicita dei confini del territorio di uno Stato.
Il punto è che – al di là dell’ovvia, e per ciò solo superflua, constatazione che il diritto degli Stati si è sempre e storicamente fondato su di una schiacciante predominanza della più dura fattualità… – brandire il «principio di autodeterminazione dei popoli» o evocare la «forza normativa dei fatti» per argomentare una pretesa indipendenza costituiscono operazioni tecnicamente poco corrette.
Vi è, piuttosto, in questa vicenda, un carico di eccedenza politica: perché è palese che abbiamo a che fare con un reiterato «braccio di ferro» tra il governo spagnolo e la Generalitat de Catalunya; nulla di più e nulla di meno. Tant’è vero che anche la dichiarazione rilasciata ufficialmente dal presidente catalano Puigdemont all’indomani della proclamazione dei risultati ufficiali del referendum, lungi dal concretare una contestuale e pari proclamazione di indipendenza, si è risolta in un rilancio, quasi in un rinnovato poker bluff; in un gesto, cioè, ambiguamente attendista e ulteriormente azzardato, e per l’appunto tutto politico, che l’Esecutivo di Madrid non pare avere alcuna intenzione di raccogliere. Del resto, anzi, quel governo si avvia verso l’inedita applicazione dell’art. 155 della Costituzione spagnola, che gli consente, previa approvazione della maggioranza assoluta del Senato, di porre in atto tutte le azioni necessarie per la protezione dell’interesse generale dello Stato.
Che cosa c’è veramente in ballo?
Lo scenario catalano ha origini lontane. E finora, tutto sommato, si è manifestato all’interno della frontiera regolata dal diritto, in primis di quello costituzionale spagnolo; contribuendo anche ad ammorbidirlo, se non a cambiarlo, quello stesso diritto.
La Catalogna, infatti, rivendica competenze sempre maggiori da molto tempo, e si può dire senz’altro che la sua instancabile azione – di progressivo accrescimento dell’autonomia che le è stata costituzionalmente riconosciuta – è una delle principali concause della trasformazione materiale dello Stato spagnolo in uno dei più significativi e brillanti (e studiati) casi di «federalismo asimmetrico».
In Spagna, in sostanza, ogni «regione» si è guadagnata un’interlocuzione diretta con il «centro» del Paese, negoziando specifiche, e di volta in volta diverse, attribuzioni e prerogative; in ciò la spinta catalana è stata determinante (basti ricordare l’annosa controversia sulla legittimità dello statuto della Catalogna, avviata nel 2006 e decisa dal Tribunal Constitucional solo nel 2010, con una sentenza, sofferta, di ben 881 pagine…).
Tuttavia vi è stato un momento in cui la Catalogna ha accelerato ulteriormente, tentando la via unilaterale della consultazione popolare, già nel 2014, e sostenendo l’esistenza, in capo ai «cittadini della Catalogna», di un «diritto di decidere» collettivo.
Il referendum di quest’anno «sbuca», per così dire, proprio da un primo fallimento del processo partecipativo annunciato e perseguito sin da allora, come riproposizione di una precedente e più articolata consultazione, che (pure) si è svolta (contro la volontà delle istituzioni di Madrid) e che (pure) non ha dato i risultati sperati (l’80,72 % dei votanti si espresse per la piena indipendenza della Catalogna, ma partecipò al voto solo il 35,9% degli aventi diritto). Non pare aver sortito un chiaro esito neanche il referendum di qualche settimana fa, nonostante il parziale sabotaggio dello Stato possa offrire l’alibi di una procedura «falsata». In proposito, più del conteggio dei voti fa fede l’accreditata sensazione, sostenuta da molti sondaggi, sull’inesistenza, in Catalogna, di una reale e qualificata maggioranza indipendentista.
Che cosa c’è, allora, al centro di questa insistenza catalana? Perché mai una classe dirigente dovrebbe rischiare così tanto?
Non si può negare che la Catalogna sia coltura di ambizioni storiche e ideali molto profonde. I suoi confini, in buona parte, segnano ancora la divisione tra il Regno di Castiglia e quello d’Aragona, e così tra «nazioni» che sono state abituate a sentirsi «diversamente spagnole» (non solo per lingua o costume…) sin dal XIII secolo. In tempi molto più recenti, del resto, in occasione della drammatica guerra civile che negli anni Trenta ha portato al potere il generale Franco, Barcellona ha rappresentato l’avanguardia della difesa della democrazia e del suo carattere socialmente progressivo, lasciando un’eredità, e una capacità, di visione comunitaria e antagonistica che forse non ha eguali in Europa (sicché è inevitabile constatare che, in Spagna, esiste tuttora una democrazia di Madrid e una democrazia di Barcellona).
Ora è certo che questi nodi, così «stretti» e «avvinti», sono destinati a venire sempre al pettine. Ma si ha l’impressione che ciò accada non perché rappresentino fattori dotati di per sé di un’inarrestabile propulsione.
Ciò accade, probabilmente, perché essi costituiscono un’efficace sovrastruttura retorica della volontà – più politica e più contingente, ossia più cinica – di difendere e rilanciare legami di garanzia (sociali ed economici) che, nella cornice unitaria dello Stato, vengono messi in parziale discussione, o sono, quanto meno, oggetto di un processo di ridefinizione più ampio e più condiviso. Un processo nel quale una comunità prospera e ricca sente di aver molto da perdere.
C’è, di fondo, nelle rivendicazioni catalane, un’istanza quasi protezionistica, apparentemente paradossale per un territorio che vive proficuamente, sul piano della sua stessa immagine internazionale, della circolazione libera delle merci, dei capitali e delle persone; e che, in modo altrettanto paradossale, proprio nel momento in cui cerca la separazione da chi (lo Stato) lo riconosce e tutela, cerca rifugio sotto l’ombrello di quelle istituzioni (europee) che, pur essendo «amiche» delle autonomie, sono gli attori predominanti del nuovo sistema di garanzie (sociali ed economiche): di quel sistema, cioè, con cui proprio la sovranità degli Stati (e tra questi anche quello spagnolo) sta facendo i conti da molti anni senza essere in grado di produrre anticorpi davvero efficaci.
Non è strano, dunque, che, nel confronto tra modelli diversi di sviluppo (e – sic – di «sovranismo»), singoli «ecosistemi regionali» provino ad affrancarsi dalle «strategie» seguite dai più grandi «ecosistemi nazionali» (mutatis mutandis, l’andamento del voto scozzese nella consultazione sulla Brexit è un ulteriore indice di questi sommovimenti).
Ciò che, tuttavia, è deprecabile è che il confronto venga animato, pressoché esclusivamente, a colpi di eccedenza politica.
«Oggi in Spagna, domani in Italia»?
Un rischio, dunque, lo si corre veramente. Ed esso deriva proprio da un profilo metodologico: da un insistito discorso pubblico di affermazione o negazione unilaterali; da un discorso che, nel caso catalano, ha a oggetto lo Stato, con la sua unità costituzionalmente sancita; ma che, in altri contesti, potrebbe essere anche altro, di non territoriale ma di parimenti sancito sul piano costituzionale.
L’azzardo, peraltro, è duplice, perché si gioca ancora tra politica e diritto.
Dal punto di vista politico, esso si traduce nel pericolo di un bluff non più credibile, di un bluff, stando alla metafora, «a carte scoperte». È una situazione quanto mai negativa, perché il gioco, in tal modo, fa venire a galla l’attitudine puramente strategica dei giocatori, fatto molto grave nell’arena pubblica, specialmente allorché i giocatori rappresentano altri soggetti, i cittadini, di cui dovrebbero sentirsi responsabili. In democrazia, in poche parole, non si gioca con la democrazia.
Dal punto di vista giuridico, poi, il rischio così descritto, travolgendo sistematicamente ogni punto di riferimento terzo (e tra questi anche la Costituzione), finisce per mettere sistematicamente sotto scacco la credibilità delle regole e delle istituzioni che sono chiamate ad attuarle: come se la tanto (impropriamente) declamata «forza normativa dei fatti» da «eccezione» diventasse all’improvviso il «criterio» della sola legittimazione possibile. Con buona pace dell’aspirazione (qualsiasi essa sia) a ricostituire una nuova e rilegittimata cornice.
Se nel caso catalano c’è qualcosa in ballo, dunque, si tratta della temibile minaccia di un populismo radicale e delle sue nuove e più aggressive forme, che si nutrono di passioni e incitamenti senza confine, a portata di click e, quindi, di facile strumentalizzazione mediatica.
Nel 1936 Carlo Rosselli preconizzava, proprio a Barcellona, un difficile destino per l’Italia e per l’Europa. Non si può certo dire, oggi, che questa profezia sia ripetibile in quegli esatti termini. Né si può dire che essa possa valere anche soltanto come invito a riflettere sulla verosimile presa, nel nostro Paese, di pulsioni indipendentistiche realmente paragonabili a quelle catalane.
Nonostante ciò, non si può negare che il metodo della strategia e del rimbalzo puramente politici, o della negazione unilaterale di un discorso presupposto o di un condiviso punto d’appoggio, non siano certo estranei alla nostra politica come alla politica di molti altri paesi europei. È su questo che il caldo autunno di Catalogna deve farci riflettere.
Fulvio Cortese
* Ai fini di una corretta contestualizzazione e per una conseguente interpretazione degli accadimenti successivi al presente articolo, si precisa che è stato consegnato in redazione dall’autore in data 21/10/2017.