Solidarietà e ingiustizia
Ipocrisie e connivenze
Quanti segreti
Nel film premio Oscar 2010 Il segreto dei suoi occhi, sullo sfondo di un’Argentina impegnata a fare i conti con il proprio passato (la dittatura militare degli anni ’76-’83), giustizia e solidarietà, con tutte le loro contraddizioni, emergono in controluce come motori segreti della Storia e delle storie. Un funzionario giudiziario oramai in pensione decide di ritornare su un caso vecchio di vent’anni: l’omicidio di una giovane sposa, la cattura dell’assassino condannato all’ergastolo e – soprattutto – la sua inaspettata liberazione da parte dell’establishment militare in quanto utile e abile collaboratore di giustizia. Benjamin Esposito, che ha speso la sua vita a ricercare se non la giustizia almeno una giustizia possibile, non torna però sulle tracce dell’assassino, ma piuttosto su quelle della vittima: ciò che lo spinge non è tanto (o soltanto) la sete di giustizia, quanto la solidarietà umana nei confronti di Ricardo Morales, marito della giovane sposa, e il desiderio di comprendere come si possa vivere con il bruciore aggiunto di quell’ingiusta liberazione. Il finale è sorprendente: Morales si è fatto giustizia nel modo più inaspettato e a Esposito che scopre il suo carcere domestico in cui da vent’anni rinchiude l’assassino sul retro della tranquilla abitazione confessa in modo lapidario: «Lei mi aveva detto ergastolo».
L’ipocrisia e le contraddizioni della giustizia deflagrano oltre ogni previsione: la giustizia pare essere guadagnata solo nel momento stesso in cui si nega, facendosi a sua volta ingiusta vendetta. Anche la solidarietà, tuttavia, non ne esce indenne: Esposito è solidale con Morales e il suo dolore, ma la sua solidarietà umana rischia di assumere i toni di una complicità nell’ingiustizia. Un particolare è forse ancora più interessante: Esposito scopre il segreto nel momento in cui, appostato in disparte, vede Morales portare il cibo e l’acqua al suo carcerato; l’ingiustizia si consuma dunque attraverso i gesti più semplici e tipici di una solidarietà umana essenziale: dare da mangiare, dare da bere.
Siamo buoni o responsabili?
Se i pericoli e le ipocrisie della giustizia sono forse più evidenti, il racconto visivo del film di José Campanella fa spalancare gli occhi anche di fronteàai pericoli più o meno segreti della solidarietà. L’aveva ben presente anche Max Weber, quando affermava che «il concetto di relazione sociale non asserisce nulla in merito alla sussistenza, o meno, di una solidarietà tra gli individui che agiscono». Non basta essere insieme per essere solidali, così come non basta la solidarietà a giustificare sé stessa: esiste una solidarietà nel bene e una solidarietà nel male, una solidarietà per la giustizia e una solidarietà che è ingiustizia.
Le ipocrisie della solidarietà, tuttavia, sono ancora più radicali e riguardano, a maggior ragione, proprio le sue espressioni sane. I gesti solidali nel bene o per la giustizia sono spesso episodici, frammentati, dettati dall’emozione o dalle utilità del momento (il Natale, non ultimo esempio). Anche la solidarietà ha oramai i suoi esperti di marketing e noi ci laviamo volentieri le mani inviando un sms solidale o acquistando un prodotto che nel prezzo pagato lasci qualche briciola del nostro consumo a favore di qualche disgraziato della Terra. Ma nulla cambia nei nostri comportamenti quotidiani.
L’apertura agli altri, così come l’affermazione pervasiva e persino insistente della solidarietà, mascherano come un cerone un mondo che è – e rimane – individualistico e antisolidale. Essere solidali assume quasi le fattezze di una «sacra prostituzione dell’anima» – potremmo dire ancora con Weber – dove al centro non c’è altro (né altri) se non sé stessi e il proprio gesto.
Di più: il gesto solidale può facilmente diventare il primo e il più valido alleato, più o meno consapevole di esserlo, dei sistemi di ingiustizia. Spingere per una solidarietà globale quale panacea di ogni male nasconde, infatti, la falsa coscienza di considerare quel male alla stessa stregua di qualcosa di inevitabile, e dunque giustificarlo. Nell’amplificazione della solidarietà equipariamo la fame o la povertà, la solitudine o l’abbandono a un disastro naturale: che interpella la nostra bontà più che la nostra co-responsabilità. Il motivo è presto detto: è più facile e conveniente essere buoni ogni tanto, piuttosto che assumerci la nostra dose di responsabilità di fronte alle ingiustizie.
La solidarietà, dunque, non è immune da ipocrisie, non è mai al riparo, non si autogiustifica in ogni suo gesto con il suo semplice porsi. Non è lo zucchero con cui rimediare a ogni amarezza della vita (altrui).
Pratiche di solidarietà, pratiche di giustizia
Spalancare gli occhi di fronte ai lati oscuri che la solidarietà può nascondere non fa, tuttavia, retrocedere di un passo dal riconoscimento della sua importanza. La possibile ingiustizia della solidarietà non toglie nulla al sempre altrettanto possibile e straordinario potere di giustizia. Un esempio su tutti: la cooperazione sociale e la sua capacità di rimettere in circolo solidarietà e responsabilità. Scommettere sulla possibilità di recupero di un ergastolano o di un tossicodipendente, sulla capacità lavorativa e relazionale di un disabile psichico, prendersi cura dell’ultimo immigrato sbarcato dal Nord Africa senza nient’altro addosso se non il suo volto e la sua storia sono pratiche solidali per fare spazio, passo dopo passo, a una giustizia autentica.
Perché non si va all’altro per mettere una pezza al suo dolore come se questo non ci riguardasse. Si va all’altro, piuttosto, per restituirgli la capacità di essere a sua volta solidale e responsabile, per restituirgli la possibilità di essere uomo tra gli uomini. E per dare corpo, nell’essere solidali, al segreto del nostro essere uomini: alla responsabilità per gli altri.
Anche una solidarietà responsabile non basta. Le pratiche solidali sono pratiche di giustizia solo se sono in grado di coniugare i volti e il comune: se sono in grado di prendere sul serio la dignità di ogni uomo e di pensare al contempo un modo diverso per essere insieme. Una nuova città.
Diana Gianola
dottore di ricerca in etica e antropologia,
impegnata nella cooperazione sociale