Simone Weil nella lettura di Adriano Olivetti, industriale ‘sovversivo’

di Canciani Domenico

«Olivetti Adriano di Camillo. Classificazione: sovversivo». Così sta scritto sul dossier stilato dalle Informazioni Generali (P.S.) nel giugno del 1931. Per un imprenditore, destinato a diventare uno dei più audaci innovatori dell’industria italiana del dopoguerra, questa definizione è, perlomeno, sorprendente. E, tuttavia, l’opera di Adriano Olivetti, nato l’11 aprile 1901 da padre ebreo e da madre valdese, morto il 27 febbraio 1960, nel panorama culturale e politico italiano, è stata veramente quella di un sovversivo.

Sulla scia del padre Camillo, socialista libertario e amico di Filippo Turati, Adriano si forma nell’ambiente antifascista della Torino di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci, diventa ingegnere e urbanista, si interessa di design, si reca negli Stati Uniti (1925/1926), dove visita numerose fabbriche, studia l’organizzazione scientifica del lavoro introdotta da Frederick W. Taylor (1856-1915), del quale in seguito, divenuto editore, pubblicherà le opere.

Di ritorno dall’America, ricco di idee, compie il suo apprendistato negli stabilimenti di Ivrea, in Piemonte, dapprima come collaboratore del padre, con il quale avrà sempre un rapporto difficile ma leale, e in seguito, succedendogli, come direttore nel 1933. Durante gli anni di guerra, dal 1942 al 1944, cospira alla caduta del fascismo. Incarcerato per qualche tempo, liberato nel 1944, è costretto, per la sua ascendenza ebraica, a rifugiarsi in Svizzera, a Campfer, nei pressi di Saint Moritz, dove legge, riflette molto e redige L’ordine politico della Comunità1, un testo di un rigore quasi maniacale di ingegneria istituzionale, base teorica del futuro impegno politico.

Umanizzare il lavoro

Rientrerà in Italia completamente trasformato, persuaso che la centralità della fabbrica e l’umanizzazione del lavoro debbano passare attraverso un cambiamento radicale della società e l’attuazione di istituzioni completamente rinnovate. In uno dei rari testi autobiografici, scrive: «Nelle esperienze tecniche dei primi tempi, quando studiavo i problemi di organizzazione scientifica e di cronometraggio, sapevo che l’uomo e la macchina erano due domini ostili l’uno all’altro, che occorreva conciliare. Conoscevo la terribile monotonia e il peso dei gesti ripetuti all’infinito davanti a un trapano o a una pressa, e sapevo che era necessario togliere l’uomo da questa degradante schiavitù. Ma il cammino era terribilmente lungo e difficile»2.

Ispirandosi al personalismo comunitario di Emmanuel Mounier, conosciuto attraverso la rivista Esprit, e alla concezione della democrazia e dell’autonomia della politica rispetto alla religione che Jacques Maritain aveva sviluppato in Umanesimo Integrale, Olivetti pone alla base della sua costruzione politico-istituzionale la comunità concreta, sola capace di garantire al cittadino, che è anzi tutto persona, la possibilità di una reale partecipazione nella costruzione della polis, sottraendolo all’onnipotenza dei partiti politici che gli hanno confiscato questo diritto.

Fabbrica, comunità e radicamento territoriale

L’idea fondamentale della nuova società – spiega nel preambolo – è quella di creare un interesse comune di ordine morale e materiale tra gli uomini che attuano la loro vita sociale ed economica in uno spazio geografico adeguato, determinato dalla natura e dalla storia. La comunità – comune, piccola città, unità industriale, cooperativa agricola, ecc. – costituisce l’entità politica, di base, l’unità economica, l’elemento di coesione, l’espressione compiuta del radicamento dell’uomo nel proprio territorio e nella propria vita. Essa include l’industria e l’azienda agricola come parti, luoghi definiti ove gli uomini si integrano e realizzano le proprie finalità. La comunità non deve considerare la fabbrica alla stregua di una semplice entità economica ma come un organismo sociale che condiziona la vita di colui che concorre alla sua efficienza e al suo sviluppo. Ne consegue che delle fabbriche belle, igieniche, sono in grado di portare un po’ di gioia nel lavoro: le abitazioni, la facilità dei trasporti, l’occupazione dei portatori di handicap, l’istruzione professionale, i rapporti con l’agricoltura creano una varietà di problemi che possono trovare una soluzione armoniosa unicamente attraverso una struttura capace di dominarli e inserirli nell’ambito della propria competenza3.

Il decentramento delle industrie, la loro armoniosa distribuzione sul territorio, rappresenta, allora, una difesa dell’uomo, poiché lo lega alla terra, ristabilisce un’economia mista, un equilibrio fecondo tra l’agricoltura e l’industria. La comunità, di cui l’industria costituisce il motore per la sua capacità innovatrice, è in grado di esercitare una funzione stimolatrice e vicaria nei confronti della regione, dello stato e dei partiti. Le forme tradizionali della rappresentanza sono insufficienti a garantire il funzionamento delle nuove strutture statali, esse devono essere adattate alla situazione: il ruolo dei partiti è destinato a ridursi fino a sparire, poiché la formazione e la selezione del personale politico si realizzano all’interno della comunità, luogo nel quale le competenze si forgiano nella soluzione di problemi concreti e in cui l’onestà è garantita da un effettivo controllo democratico.

Adriano «imprenditore di idee»

Questo cambiamento potrà avvenire solo in modo graduale poiché implica una trasformazione profonda delle mentalità, per questo Olivetti riserva, nel suo progetto, uno spazio fondamentale alla cultura e agli operatori culturali, gli intellettuali – scrittori, artisti, sociologi, urbanisti, architetti, psicologi… – di cui sollecita il contributo e che coinvolge nella sua avventura, lasciando loro una libertà e un’autonomia assolute. La fabbrica, il territorio, la diffusione di una cultura della fabbrica e del territorio, fanno veramente di Adriano Olivetti, secondo una definizione che gli si addice pienamente, un autentico «imprenditore di idee» ed è in quest’ambito, quello delle idee, che egli scopre la sua vocazione, A seguito di un conflitto interiore in cui si confronta con la parabola del giovane ricco, egli si convince, come confida alla moglie, che la sua vocazione, il suo modo di donare ai poveri è quello di «agire e di creare».

Al momento di gettare le basi della Casa Editrice, nel 1946, la sua biblioteca privata diviene una biblioteca pubblica: questo è il suo modo, veramente attuale, di dare ai poveri. A un ritmo estremamente rapido, il panorama culturale italiano, assai animato nel dopoguerra ma egemonizzato, soprattutto con Einaudi, dalla cultura marxista, si arricchisce di libri provenienti dall’estero, America, Francia, Germania. Sotto la stessa copertina bianca, elegante e sobria, opere di scienze umane, economia, diritto, filosofia e religione testimoniano, in modo eloquente, dell’unità e dell’uguale importanza di tutte le branche del sapere umano.

Olivetti pubblica le opere di Simone Weil

Ed eccoci a Simone Weil. Nell’ottobre 1950 la piccola rivista Comunità, incunabolo della casa editrice, pubblica un articolo di Jean Jacquot su La pesanteur et la gréce e L’enracinement. La breve presentazione recita: «Le osservazioni della Weil intorno alla creazione di un’autentica cultura operaia e contadina, strettamente collegate al lavoro dell’officina e della terra, sono giuste e profonde. Il compito della nostra epoca di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro è la sola cosa abbastanza grande per proporla ai popoli invece dell’idolo totalitario»4.

Una piccola nota alla fine dell’articolo informa poi il lettore che le Edizioni di Comunità si apprestano a pubblicare la traduzione di La pesanteur et la gréce. Il traduttore dell’articolo è il sociologo Franco Ferrarotti, amico e collaboratore stretto di Adriano Olivetti, che di lì a poco farà conoscere un testo fondamentale di Simone Weil, La note sur la supression générale des partis politiques5 che la cultura politica italiana ha lungamente trascurato, riscoprendolo solo in tempi recenti. In un periodo assai breve – dal 1951 al 1956 – tutto ciò che conta ed è già disponibile in Francia, dalla Condition ouvière a L’enracinement, salvo Attente de Dieu, che è riservato ai cattolici, viene tempestivamente tradotto da un intellettuale molto raffinato, saggista e poeta, Franco Fortini. Il rifiuto da parte di quest’ultimo di tradurre Oppression et liberté, affidato poi allo storico Carlo Falconi, non rallenterà l’ingresso della giovane filosofa nel dibattito intellettuale e politico. Subito i lettori e le letture dei suoi scritti si moltiplicano perché i temi del lavoro e della condizione operaia sono all’ordine del giorno e fanno discutere marxisti e cattolici in Italia.

Editore e lettore di Simone Weil

Adriano Olivetti, da parte sua, da editore si fa lettore di Simone Weil: le coincidenze fin qui lasciate intuire divengono progressivamente connivenze, complicità, mai, però, servono a suffragare o imporre con argomenti di autorità il suo progetto industriale. Certo, egli è felice di trovare negli scritti di Simone Weil quel che né Maritain né Mounier potevano dargli: una riflessione approfondita sul lavoro e la condizione operaia.

Messo a disposizione di ciascun lettore, il pensiero di Simone Weil può essere così da lui stesso sobriamente citato o, più spesso, allusivamente parafrasato nei suoi interventi pubblici e nei discorsi agli operai. Nel 1956, in occasione di una riunione nell’ufficio di Pietro Nenni in vista di una possibile riunificazione del Movimento comunità con il Partito Socialista Democratico, Olivetti per sostenere, con realistico disincanto, le esigenze di una politica concreta, graduale, libera da remore ideologiche, cita Simone Weil per la quale «la formula del minor male resta la sola applicabile, a condizione di applicarla con la più fredda lucidità».

Alle pagine della Condizione operaia e della Prima radice, soprattutto dove si parla dello sradicamento operaio e contadino, Olivetti attinge ispirazione per formulare una risposta alla domanda che non cessava di affiorare nei discorsi che teneva regolarmente ai suoi operai. Essa riguarda gli scopi dell’industria, che non può accontentarsi di assicurare l’indice dei profitti. In occasione dell’inaugurazione degli stabilimenti di Pozzuoli (23 aprile 1955) ripete agli operai che questi fini non possono ritrovarsi solo nel profitto, perché nella vita della fabbrica, al di là del ritmo apparente, c’è qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, perfino una vocazione.

Dare un senso al lavoro operaio: bellezza e giustizia, poesia e progresso

La questione di riempire di senso il lavoro operaio è al cuore dello scritto «Prima condizione di un lavoro non servile», il testo straordinario ma impervio che suggella La condizione operaia. Olivetti lo conosce, lo medita per proprio conto, non osa proporlo agli operai: parlare loro di bellezza e di poesia e non solo di incentivi rischierebbe di suonare strumentale. Eppure, tutta la sua opera, e non solo a Ivrea e nel Canavese, mira a creare degli ambienti dove l’operaio possa incontrare la bellezza oltre che il soddisfacimento dei suoi bisogni. Ne La fabbrica e la comunità la convergenza con il pensiero di Simone Weil è più che manifesta: «Che cos’è una fabbrica comunitaria? – si domanda. È un luogo di lavoro ove alberga la giustizia, ove domina il progresso, dove si fa luce la bellezza, nei dintorni della quale l’amore, la carità, la tolleranza sono nomi e voci non prive di senso». E più avanti aggiunge: «La gioia nel lavoro, oggi negata al più gran numero di lavoratori dell’industria moderna, potrà finalmente sorgere di nuovo quando il lavoratore capirà che il suo sforzo, la sua fatica, il suo sacrificio – che pur sempre sarà sacrificio – è materialmente e spiritualmente legato a un’entità nobile e umana che egli è in grado di percepire, misurare, controllare, poiché il suo lavoro servirà a far vivere questa Comunità viva, reale, tangibile, laddove egli ed i suoi figli hanno vita, legami, interessi»6. Nelle «Esperienze della vita di fabbrica» Simone Weil aveva scritto: «La fabbrica dovrebbe essere un luogo di gioia, dove se anche è inevitabile che il corpo e l’anima soffrano, tuttavia l’anima possa gustare la gioia, nutrirsi di gioia»7.

Giulio Sapelli, studioso della storia dell’impresa, conoscitore della vita e dell’opera di Adriano Olivetti, è convinto di individuare in «Simone Weil una delle costruzioni di senso privilegiate per comprendere la spiritualità olivettiana che va riletta costantemente per interpretare, di Adriano, il segreto più profondo dell’anima. È il segreto della ricerca di una dimensione del sacro nel cuore stesso degli agenti della secolarizzazione e della modernizzazione: l’industria e i suoi prerequisiti tecnologici, culturali e sociali»8.

Nella lettera del 26 maggio 1942 indirizzata da Casablanca al padre Perrin, Simone Weil delinea un ideale di santità totalmente nuova: «Oggi essere santi non basta, occorre la santità che il momento presente esige, una santità nuova, anch’essa senza precedenti. […] Un nuovo tipo di santità è qualcosa di dirompente, è un’invenzione. […] Significa portare alla luce una larga porzione di verità e di bellezza fin qui dissimulate da uno strato di polvere»9.

Chi può dire che Adriano Olivetti, nella sua vita di industriale sovversivo, non abbia incarnato, almeno in parte, questo ideale di santità?

Domenico Canciani, facoltà scienze politiche, dipartimento studi internazionali, università di Padova

Fonti

1 L’ordine politico della Comunità. Dello Stato secondo le leggi dello spirito, Roma, Edizioni di Comunità, 1946.

2 Appunti per la storia di una fabbrica, «Il Ponte», n° 8/9, agosto/settembre 1949, p. 1045.

3 Riassumo per brevità quanto Olivetti sviluppa nella parte introduttiva de L’ordine politico della Comunità.

4 Due libri di Simone Weil, «Comunità», a. IV, n° 9, settembre/ottobre 1950, p. 10.

5 Appunti sulla soppressione dei partiti politici, ivi, n° 10, gennaio/febbraio 1951., p. 1-5.

6 La Fabbrica e la Comunità, Ivrea, Movimento Comunità, p. 13-14 e 1819.

7 La condizione operaia, Milano, Edizioni di Comunità, 1952, p. 268.

8 La responsabilità davanti alla storia, «La sentinella del Canavese», 19 aprile 2001.

9 Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Milano Adelphi, 2009, p. 58.