Si può parlare di linguaggio giovanile?

di De Sisti Monini Amelia

Adulti, adolescenti e una terza categoria

Interessi musicali

La musica è forse la prova più eclatante dello scarto tra il linguaggio dei giovani e quello degli adulti; non tanto la musica in sé, quanto piuttosto i gusti musicali delle due età o categorie: rap contro rock, dj che fanno ballare contro voci melodiche che fanno sognare.

Non solo genitori e figli non condividono l’amore per uno stesso genere, ma talvolta gli uni arrivano a discutere per convincere gli altri delle loro idee in campo musicale, e viceversa. Ecco perché la musica è un salto tra generazioni che non si capiscono, e anche nel caso in cui padre e figlio ascoltino uno stesso artista, le motivazioni che li spingono ad avvicinarsi a questo sono sicuramente diverse, o addirittura agli antipodi. Basti pensare al significato che la musica dei Beatles assume: l’adulto ci vede un futuro, un traguardo, una rivoluzione; il ragazzo, un passato, non più un punto di arrivo ma semmai un inizio.

Propensioni linguistiche

I social networks non rappresentano un esempio di linguaggio giovanile: la musica marca il confine tra generazioni, il social network lo sfuma. Facebook – come tanti altri mezzi di comunicazione di massa – è un grande popolo, un’immensa comunità fatta di pochi adulti, moltissimi giovani e altrettanti adulti che mentono a sé e agli altri, credendosi giovani.

Qualcuno ha innescato un meccanismo, assumendo, per primo, l’atteggiamento tipico del cosiddetto «bimbo-minchia». È stato un adulto? Un adolescente? È evidente, però, qualunque sia la generazione responsabile tra le due imputate, che l’una abbia influenzato negativamente l’altra. Probabilmente è stato l’adulto a scimmiottare il giovane per colmare un’incomunicabilità sostanziale tra generazioni, che lo stava tagliando fuori. Strano a dirsi, ma forse, per una volta, è il figlio che ha dato il cattivo esempio al genitore.

A questo punto, chi è il o la «bimbo-minchia»?àQuesto termine, tipico del linguaggio giovanile, non si trova nel vocabolario. Prendiamo in considerazione una ragazzina di 15 anni, classe 1998. Questa sarà reputata una «bimba-minchia» dalle ragazze più grandi – anche solo di un anno – se, per esempio, chiama «amore» le amiche, usa tutte le possibili abbreviazioni, immaginabili e inimmaginabili, beve del sidro di mele e sembra già ubriaca, si fotografa allo specchio mandando baci e rendendo il suo bagno famoso in rete…

Ma se la fisionomia di una persona cambia in media ogni due anni, il linguaggio non è da meno e la ragazza diciassettenne, «classe ’98», chiamerà tra due anni «bimba-minchia» una ragazza «classe 2000», dimenticando che lei stessa comunicava, a gesti e a parole, esattamente come la quindicenne che lei prenderà di mira. Il linguaggio abbreviato, tanto utilizzato nella fascia tra i 14 e i 16 anni, non è propriamente giovanile. Un adulto presbite che, lento nello scrivere SMS e costretto a inforcare gli occhiali a ogni messaggio, usa il linguaggio sincopato per necessità e utilità, potrebbe scrivere «conf x doma» anziché «confermato per domani». Non tutti i genitori utilizzano questo linguaggio, né tutti lo fanno per utilità: c’è sempre un padre che, per mostrarsi moderno al figlio, chiama «ape» l’aperitivo, «messaggino» l’SMS e via dicendo.

La tecnologia, dunque, avvicina le generazioni? Non sempre. Infatti, se la linea che divide i modi di comunicare di figli e genitori (in realtà anch’essi figli) è sfumata, quella tra «genitori-figli» e «genitori-nonni», da terreno franco, è divenuta uno strapiombo: una voragine incolmabile.

Infatti, benché il linguaggio sia un segno del tempo che sottolinea le fasi della vita, è anche figlio del tempo, di un’ epoca, di una civiltà e contesto culturale, che ha segnato in modo diverso la vita dei nonni, dei genitori e dei figli.

Amelia De Sisti Monini
neodiplomata al liceo scientifico
indirizzo linguistico «A. Roiti» di Ferrara,
ama i libri e il pattinaggio artistico