Senegal
La liberazione dalla Francia
Il Senegal sta cercando di liberarsi dell’ingombrante ombra della Francia, ma non può riuscire da solo nell’impresa. Lo scorso dicembre otto paesi dell’Africa dell’ovest (sette ex colonie francesi: Senegal, Costa d’Avorio, Mali, Benin, Burkina Faso, Niger e Togo e un ex colonia portoghese, la Guinea-Bissau) si sono accordati per mettere fine alla moneta corrente chiamata ‘franco CFA’ (Franco delle Colonie Francesi d’Africa), in uso dal 1945.
L’accordo prevede la nascita di una nuova moneta, sempre collegata all’euro. Per molti senegalesi usare il franco CFA era una sorta di promemoria giornaliero del persistente legame col paese colonizzatore. I critici dicono che il sistema vigente abilitava la Francia a sfruttare il Senegal anche molto tempo dopo che il tricolore blu, bianco e rosso si è abbassato di fronte all’indipendenza, specialmente finché rimane facile per la Francia accedere alla ricchezza mineraria dell’Africa ovest.
Molti economisti hanno sottolineato come l’essere sostenuti dal vecchio franco francese prima e dall’euro poi, in realtà avesse permesso una relativa stabilità finanziaria e a tenere bassa l’inflazione.
Alassane Ouattara, presidente della Costa d’Avorio, ha descritto la decisione di rottamare la vecchia moneta come storica per l’Africa dell’ovest. E anche gli altri politici della regione hanno celebrato la disposizione.
La maggior parte della popolazione che vive in questi paesi ha meno di trent’anni: probabilmente, quindi, non è molto interessata alle argomentazioni politiche legate al passato coloniale; invece, potrebbe giudicare la bontà di questa mossa in base al fatto se la lascerà più ricca o più povera di prima.
La decisione del Senegal di ‘smarcarsi’ dalla Francia, però, è relativamente recente.
Per capire facciamo un passo indietro. L’insediamento francese di Saint Louis creato alla metà del 1600 e l’isola di Gorée, nella stessa regione amministrativa di Dakar, la capitale dell’Africa occidentale francese, furono importanti centri di scambi commerciali, in particolare per la tratta degli schiavi prima e per il commercio delle arachidi dagli anni trenta dell’Ottocento. In seguito essi sarebbero divenuti avamposti per una penetrazione interna dei francesi, iniziata dal governatore Louis Faidherbe, che sarebbe durata dieci anni, a partire dal 1854, lungo i fiumi Senegal e Casamance. A differenza di molti altri paesi colonizzati, il Senegal, sotto il controllo francese, sperimentò alcune forme di partecipazione politica, seppur embrionali e limitate. Fin dalla metà dell’Ottocento vennero riconosciuti alcuni diritti politici agli originaires, ovvero gli abitanti dei quattro distretti senegalesi, detti ‘quattro comuni’ (Dakar, Rufisque, e il nucleo iniziale, SaintLouis e Gorée). Venne loro concesso non solo di partecipare alla formazione dei consigli municipali locali, ma anche di eleggere un proprio rappresentante all’Assemblea nazionale di Parigi. Ci volle però molto tempo prima che i candidati africani prevalessero su quelli bianchi europei. Il primo deputato di colore si ebbe solo nel 1914, nella persona di Blaise Diagne, seguito poi dal futuro leader del Senegal, Leopold Sédar Senghor, a capo del Bloc democratique (vedremo poi quanto democratico fosse in realtà) sénégalais. Il Senegal ottenne l’indipendenza nel 1960, insieme al Sudan, e già il partito di Senghor si andava affermando.
Col Sudan si formò la Federazione del Mali, che, tuttavia, durò solo due anni. Al suo scioglimento Senghor divenne il primo presidente senegalese della storia, affiancato dal Primo Ministro Mamadou Dia. Una carica che stava stretta a Dia che, infatti, tentò quasi subito un colpo di stato nel 1962, ovviamente fallito, che divenne pretesto per Senghor per accentrare più poteri su sé stesso. Da notare che il Senegal è uno dei pochi stati africani a non aver subito un colpo di Stato riuscito, ma il tentativo fu sufficiente a Senghor per ridurre le libertà democratiche, faticosamente ottenute.
Nel 1966 quello di Senghor fu dichiarato l’unico partito senegalese legale e le elezioni del 1968 e del 1973 vennero ridotte alla stregua di plebisciti. Pur essendo convinto sostenitore del ‘socialismo africano’, il presidente sapeva anche essere pragmatico. Ad esempio, in un paese per il 90% musulmano, venne formalmente riconosciuto l’importantissimo ruolo sociale dei marabout, i potenti capi islamici locali. Essi continuavano a ottenere appezzamenti di terra dal governo e trovavano sempre mano d’opera, costituita da seguaci religiosi, per coltivare. Senghor adottò politiche che, di fatto, promuovevano gli interessi economici francesi. Come nella maggioranza dei paesi con un passato coloniale, la borghesia, il ceto medio imprenditoriale africano, non si era formata, perché i colonizzatori ne aveva impedito lo sviluppo. Del resto, la nascita di una borghesia di stampo occidentale non controllata dall’autorità statale spaventava Senghor, come molti altri leader africani di paesi appena divenuti indipendenti. Da questo stile di governo deriva che molti settori economici emergenti (il commercio e l’industria) erano controllati dai francesi anche dopo l’indipendenza (e in piccola parte dai commercianti libanesi). Inoltre, Senghor avrebbe lasciato una guardia pretoriana francese nella base militare di Dakar, vicino all’aeroporto internazionale, col pretesto di garantire maggiore sicurezza, ma di fatto favorendo una presenza anche armata della Francia in un Senegal indipendente solo sulla carta. Tutto questo insieme di fattori, soprattutto l’eccessivo controllo statale del nuovo ceto politico emergente, non poteva che scoraggiare gli investitori stranieri e la stessa produttività delle attività economiche.
Cambia il padrone, ma non le politiche
Tra gli anni sessanta e settanta, un po’ alla volta le compagnie francesi abbandonarono le loro attività in Senegal, ma il passaggio dell’economia in mani locali fu tutt’altro che indolore. Lo Stato utilizzò tutte le strutture politiche e burocratiche a sua disposizione per governare questo passaggio. Coloro che ottenevano licenze per il commercio (in particolare quello delle arachidi) – a prezzi vantaggiosi (tramite prestiti bancari che spesso non venivano rimborsati) – erano spesso individui con i giusti agganci politici.
Nel complesso, Senghor è ricordato dalla storia più come un eccellente poeta (continuò a scrivere e pubblicare poesie per tutta la sua vita) che come un eccellente politico. I problemi rimasero anche con i suoi immediati successori. Come Abdou Diouf che fu coinvolto in affari alquanto dubbi. I ‘responsabili’ di partito decidevano chi dovesse beneficiare di aiuti economici governativi e chi no, per questo la posizione di responsabile era molto ambita e la sua assegnazione dava luogo a scontri. Il responsabile doveva stare attento a non danneggiare la sua rete clientelare, pena la perdita di prestigio sociale, di sostenitori e, talvolta, della tessera di partito.
Questa economia portò stagnazione generale e, negli anni settanta, a un declino della produttività agricola e industriale.
Negli anni ottanta esplose la crisi fiscale. Da tempo i contadini avevano ridotto la quota di produzione per il mercato, favorendo un’agricoltura di sussistenza o il commercio illegale di prodotti, in particolare con l’estero. Le tasse sulle importazioni, ritenute troppo esose, venivano spesso evase, con la complicità degli ufficiali doganali e la compravendita illecita di licenze pubbliche.
Ciò portò a un calo degli introiti nelle casse statali e spinse il Senegal ad adottare, primo fra gli Stati africani, misure economiche raccomandate dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario internazionale.
Politicamente, negli anni settanta vennero legalizzati, dapprima tre poi quattro, partiti in alternativa a quello socialista, che tuttavia continuò a governare a lungo. Il numero di partiti legali era però destinato a crescere e l’opposizione a farsi più accesa.
Diouf, cui Senghor aveva lasciato volontariamente la presidenza, venne faticosamente riconfermato nel 1988 e 1993. Solo nel 2000, la vittoria di Abdulaye Wade ha posto fine a quarant’anni di dominio dei socialisti e inserito il Senegal nel novero dei paesi dell’Africa subsahariana che hanno vissuto un cambio di governo come risultato della volontà degli elettori.
Elezioni 2019 e prospettive economiche
Anche le recenti elezioni del 2019 sono state contestate. Hanno riconfermato Macky Sall, del partito centrista ‘Alleanza per la Repubblica’ (APR), che era già presidente dal 2012. Gli oppositori chiedevano a gran voce un ballottaggio, ma non c’erano i presupposti: Sall ha preso oltre il 58% dei voti, nulla in confronto al 90% di paesi in cui la democrazia è solo una facciata. Sall è considerato uno dei leader africani più democratici. Inoltre, ha attivato un programma di redistribuzione della ricchezza e sostegno ai più poveri. L’economia cresce a ritmi sostenuti che ricordano quelli cinesi, trainata dall’agricoltura, sebbene in leggera flessione negli ultimi tre anni. Il rapporto deficit/PIL nel 2018 era ancora al 3% mentre ora è al 3,5%. Questa crescita si deve in gran parte alla spesa pubblica per investimenti, dopo l’attuazione del ‘Piano d’Emergenza per il Senegal’ cinque anni fa. L’aumento del prezzo del petrolio potrebbe essere un rischio per il Senegal, che si avvia a diventare paese produttore entro il 2021.
Cecilia Alfier componente la redazione di madrugada