Se vuoi che il mondo si apra a te, apri prima la tua mano

di Stoppiglia Giuseppe

«Sono stato preso e gettato nel turbinio
della corrente
e ne sono stato travolto.
Non voglio essere tratto in salvo,
ma semplicemente
fare qualcosa per logorare gli argini
e sfondarli,
nella fiducia che la fiumana abbia
a straripare».
Oscar Wilde
«La religione contemporanea spesso
chiede poco all’uomo.
È pronta a offrire conforto, ma non ha il
coraggio di provocare.
È disposta a fornire edificazione, ma non
ha l’ardire di spezzare idoli.
È diventata abitudine, rituale, ma senza
rischi e senza tensione.
Parla in nome dell’autorità invece che
con la voce della misericordia e della
compassione».
Abraham Joshua Heschel

Fleming e Churchill

Si chiamava Fleming, era un contadino scozzese, povero e laborioso. Un giorno, mentre lavorava nel campo, sentì un grido d’aiuto venire dalla palude vicina.

Immediatamente lasciò i propri attrezzi e corse subito a vedere chi mai fosse in pericolo. Bloccato fino alla cintola, nella melma nerastra, c’era un ragazzino che, terrorizzato dalla paura, urlava, cercando di liberarsi. Il contadino Fleming intervenne subito e portò in salvo il ragazzo da quella che avrebbe potuto essere una morte lenta e terribile.

Il giorno dopo, una carrozza attraversò i campi del contadino scozzese e si fermò nel cortile davanti alla sua casa. Scese un gentiluomo, vestito elegantemente, e si presentò come il padre del ragazzo che Fleming aveva salvato.

«Vorrei ripagarvi – gli disse il gentiluomo – per aver salvato la vita di mio figlio». «Non accetterò mai un pagamento per quello che ho fatto» – replicò il contadino, rifiutando qualsiasi offerta. In quel momento, incuriosito, si affacciò alla porta della casa il figlio del contadino, un ragazzino biondo e magro.

«È vostro figlio?» – chiese il gentiluomo. «Sì» – rispose il padre deciso. «Vi propongo un patto. Lasciate che io provveda a dare a vostro figlio lo stesso percorso di studi e lo stesso livello di educazione che avrà mio figlio. Se il ragazzo assomiglia al padre, diventerà senz’altro un uomo di cui entrambi saremo orgogliosi».

E così accadde! Il figlio del contadino Fleming frequentò le migliori scuole dell’epoca. Si laureò presso la scuola medica dell’ospedale St. Mary di Londra e diventò celebre nel mondo come sir Alexander Fleming, lo scopritore della penicillina.

Dopo diversi anni, lo stesso figlio del gentiluomo che era stato salvato nella palude si ammalò di polmonite e questa volta fu la penicillina a salvare la sua vita. Il nome del gentiluomo era lord Randolph Churchill e quello di suo figlio sir Winston Churchill.

Qualcuno penserà che questa sia solo una gustosa leggenda. A me, leggenda o verità, piace pensare che queste cose possono accadere e accadono veramente.

Andrea, morire a vent’anni

Andrea è stato ucciso di domenica, in una fredda mattina di dicembre. Scortava abitualmente una donna cingalese, madre della sua ragazza, per proteggerla dall’ex convivente che la minacciava di morte. Aiutava la donna e le sue due figlie, immigrate a Milano, a inserirsi nella nostra società.

Quella mattina l’ex convivente ha sparato alla donna, Andrea si è posto in mezzo e sono morti entrambi. Nel pomeriggio l’omicida, prima di consegnarsi ai carabinieri, si è suicidato. I compagni di scuola e gli amici di Andrea sono addolorati e commossi: aveva appena vent’anni, faceva la quinta liceo.

La vita insegna contemporaneamente il male e il bene, più di ogni parola. È la parola, però, che trae significato dai fatti, come l’acqua lentamente tira via, in pepite, l’oro dalla roccia. Andrea era stato bocciato in seconda liceo, ma ora, nella morte, lo vediamo promosso dalla vita.

Una vita perduta a vent’anni? Oppure una vita guadagnata a un senso che molti non raggiungono in decenni di affanni o di grandi carriere? Gesù ha detto che nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici.

La decisione di porre sé stesso tra l’assassino e la vittima non nasce in un istante: è il frutto prezioso di una vita breve ma chiara, matura, valida, interiormente disposta a spendersi per un’altra persona, per gli altri. Tra tante vite balorde e insulse, è un segno luminoso di bene in mezzo ai tanti cadaveri del male.

Queste realtà preziose sono nascoste in mezzo a noi ed è proprio grazie a queste che il mondo degli uomini regge e continua a fecondare.

La parola conduce la mano sul confine

In questi giorni tristi o meglio cattivi, un amico, molto attivo in un partito politico, mi ha fatto un’osservazione preziosa. Si discuteva dell’incapacità dei partiti di tradurre i valori condivisi in obiettivi collettivi, di certe loro posizioni discutibili, assunte in nome del realismo, ma soprattutto del loro immobilismo e della loro superficialità a elaborare nuove idee da contrapporre alla deriva culturale e politica.

Notava, con arguzia, che per me era facile sostenere posizioni intransigenti, perché, non avendo compiti decisionali, non sono obbligato a nessuna mediazione. È vero! Posso, infatti, parlare, affermare le mie convinzioni, che restano solo proposte, fatte a chi mi ascolta. Non incidono sulla realtà, se non nel tempo, quando faranno corpo con l’analoga convinzione di molti altri.

È giusto che chi ha la possibilità di elaborare giudizi e di proporli all’opinione pubblica tenga conto di questa differenza di ruoli, rispettando la minore «purezza» delle decisioni operative, rispetto alle idee chiare e distinte. Significativo, a tal proposito, era il monito di mio padre: «In politica, come in famiglia, bisogna volere anche qualcosa che non si vuole».

È altrettanto vero, però, che sono i criteri di valore cheàdevono giudicare le azioni. Queste possono avvicinarsi al valore, ma non possono decidere il valore. Ognuno fa quello che può, non di più, sapendo però che l’ideale, il giusto, sta oltre il possibile. Se manca questa tensione, tutto è perduto, perché conta solo la forza di chi decide.

Il rischio per chi pensa è di dimenticare il limite, il rischio di chi opera è di affogare nel possibile. L’uno ha bisogno dell’altro, ma l’occhio deve restare libero per impedire al piede di inciampare. Se tutte le voci smettessero di dire che l’intollerabile è intollerabile, passerebbero in sordina le affermazioni di Berlusconi sul fascismo e l’offesa alle vittime e al diritto sarebbe ribadita e ripetuta.

Se si spengono le voci più forti, la più debole non tacerà mai, anche se nessuno la sentirà. Certo, una voce non cambia il mondo, ma che importa? Resta vigile, attenta sulle decisioni pratiche.

Se l’etica è al servizio della politica

Se vuoi che il mondo si apra a te, apri prima la tua mano. Questo sarà il tema della festa per il 2013, anno in cui celebriamo il 25° di fondazione di Macondo.

Non vuole essere solo uno slogan, magari incoraggiante e significativo per «anime belle», impegnate verso i deboli, ma è soprattutto il tentativo di immergerci nella vita e diventare umani.

Prima che la crisi economico-finanziaria catalizzasse su di sé quasi tutta la retorica politica, in Italia si parlava molto di valori. Un discorso che periodicamente riemerge e poi sparisce. I valori dovrebbero essere permanenti nel discorso politico, invece l’appello entra in scena a seconda dei tempi e delle circostanze. Essendosi dimostrata impraticabile la via di moralizzare la politica, a molti sembrò opportuno tentare di politicizzare l’etica. La triste stagione della Chiesa italiana dominata dalla figura di Camillo Ruini è riconducibile, in buona misura, a questi parametri.

Nel nostro paese, infatti, si stanno perdendo i riferimenti ai valori condivisi, su cui si basa la coscienza sociale. Per questo è sempre più difficile pensare al futuro della nostra società, resa fragile, cinica, adattata, condannata al presente, appiattita senza più legge, né desiderio, dove negli ultimi quindici anni i giovani, fra i sedici e i trent’anni, si son ridotti di due milioni.

Ascoltare la voce dei maestri

Questi cambiamenti, questi mutamenti hanno allontanato l’autorità (il potere) dall’ordinamento sociale e la distinzione tra bene e male s’è fatta molto difficile anche per chi ha strumenti morali per farlo. Si stanno trasformando le convinzioni personali in verità assolute, causando indifferenza, conflitti fra culture, dispersione dell’etica collettiva.

L’intero Occidente, non solo l’Italia, dovrebbe passare per una rivoluzione spirituale, perché l’attuale collasso economico non è solo una crisi finanziaria, ma una crisi morale. Sono convinto che l’Occidente, parafrasando il monaco Ceric, Mufti di Bosnia, abbia sette gravi peccati sulle proprie spalle: «Benessere senza lavoro, educazione senza morale, affari senza etica, piacere senza coscienza, politica senza principi, scienza senza responsabilità, società senza famiglia».

C’è una soluzione per risolvere questa crisi? Credo di sì, ma prima di tutto penso si debbano sostituire i senza con altrettanti con. Abbiamo bisogno, inoltre, di uomini «ponte» (soprattutto maestri, profeti, poeti e artisti) in grado di saper leggere i segni dei tempi e di aiutarci a traghettare la crisi!

C’è, nel vangelo di Matteo, un brano molto polemico (cap.16) dove si legge: «I farisei e i sadducei si avvicinarono a Gesù per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Gesù rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: Sarà bel tempo perché il cielo è rosso’ e al mattino Oggi sarà burrasca, perché il cielo è rosso cupo’. Sapete interpretare dunque l’aspetto del cielo e della terra e non sapete distinguere i segni dei tempi? Siete una generazione perversa e adultera che cerca un segno, ma nessun segno vi sarà dato, se non il segno di Giona». Detto questo, li piantò in asso e se ne andò».

Questo rimprovero di Gesù è un messaggio rivolto direttamente agli uomini e alle donne del nostro tempo.

«Dio – afferma Gesù nell’incontro con la samaritana al pozzo di Sicar – non si manifesta più sul Monte Garizim o nel tempio di Gerusalemme, ma nell’interiorità del cuore umano». Gesù distrugge la religione dell’apparato e dei riti.

Il vero peccato «originale» allora sta proprio nel non riconoscerlo nel volto dell’uomo debole, povero, disabile, vittima della grande perversione.

Trasformare il male in bene «comune»

Non vedo obiettivo umano (politico, di civiltà, di eticità pubblica) più grande di questo: creare i presupposti peràraggiungere il bene comune, se non a partire dai poveri.

Non si nasce «poveri», ma «poveri» si diventa, perché sono il frutto di una galoppante disuguaglianza fra gli umani: donne sfruttate, migranti, nuovi e vecchi disoccupati, persone senza fissa dimora o che hanno perso la casa per il pignoramento disposto dall’Agenzia delle Entrate, anziani soli, minori (stranieri e no) «non accompagnati», detenuti, ex detenuti, malati senza risorse nelle mani della malasanità, abitanti di quartieri-ghetto, ragazzi a rischio.

Cos’è la politica se non l’arte di vivere insieme? Ben prima che arte di comandare per governare, è arte di comporre la «insocievole socievolezza» (Kant) di ciascuno di noi nella «società», realtà umana di «soci» e non di «rivali», di alleati per uno scopo comune, che è quello di sopravvivere ai pericoli e risolvere i problemi di tutti.

La forza più grande che ci viene chiesta, nel clima distruttivo che respiriamo nel paese, non è quella di dare colpi, neppure di restituirli, ancora meno di trasmettere i colpi ricevuti sulle persone più deboli. La forza più grande è incassare colpi, smorzarli sulla propria resistenza (che significa star fermi quando un’altra forza ti vuole abbattere). È avere spazi interiori, capaci di digerire la violenza senza rigettarla, né rimetterla in circolazione come aggressività offensiva e distruttiva.

Il prezzo è la sofferenza, spirituale prima che fisica, caricata sulle proprie spalle, come strumento di forza per trasformare il male in bene, opera somma della creazione.