Se il direttore d’orchestra impone la sua musica
Non ho simpatia per Salvini, vero e unico leader del neonato «governo del cambiamento». Ma bisogna ammetterlo: Matteo Salvini è bravissimo a comunicare con il «suo» popolo: dieci, cento volte più bravo del Matteo che l’ha preceduto. Renzi usava tre note in croce, Salvini usa tutto il pentagramma. È pericoloso un tipo come Salvini per la scassatissima democrazia italiana? A naso, e se interrogo la mia colite, mi sembra di sì, anche se sono passati solo pochi mesi dall’insediamento del governo giallo-verde e il giudizio resta sospeso: non ci sono ancora nuove leggi e provvedimenti concreti su cui esprimersi. Intanto, il clima sembra tutt’altro che sereno. Alcuni ministri, soprattutto il titolare dell’Economia Tria, cantano fuori dal coro. Di Maio è in difficoltà e cerca di aumentare la propria visibilità. Qualcuno già scommette che Giuseppe Conte non arriverà a «mangiare il panettone» e sarà costretto alle dimissioni prima delle elezioni europee della prossima primavera. Forse, però, non dovremo aspettare l’autunno per trarre le prime somme. Del cambiamento promesso in campagna elettorale non si vede ancora una concreta traccia, eppure basta guardarsi intorno, aprire un quotidiano, accendere il televisore, dare una scorsa alle agenzie che rimbalzano in tempo reale i tweet e i post dei vari leader politici, per capire che il cambiamento è già arrivato.
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Misura del nostro presente: sono le parole, molto prima dei fatti, a produrre il cambiamento. Le parole, il mezzo dove sono inserite quelle parole, la velocità con cui quelle parole arrivano al nostro orecchio. E il tono. Il tono della voce: minaccioso o rassicurante, diretto o trasversale, buonista o guerrafondaio. Matteo Salvini sta dettando un nuovo linguaggio, un nuovo modo di «fare politica». Gli altri, tutti gli altri, gli vanno dietro. Distribuisce carezze, minacce e insulti. Carezze al popolo crescente dei suoi elettori (lo dicono i sondaggi). Minacce agli invasori, clandestini, africani, nomadi. Insulti ai politici, intellettuali, giornalisti e commentatori che gli resistono. Devo ora confessare una mia opinione personale. Poco importa se risulterà impopolare. Leggo e ascolto le risposte al direttore d’orchestra Salvini: l’appello di Roberto Saviano, la lettera aperta di Sandro Veronesi, le parole di Laura Boldrini, il messaggio di Asia Argento e di tanti altri testimonial e «paladini dell’accoglienza». Ecco, tutto questo rispondere, il modo con cui si risponde, mi pare perdente. E infatti, giorno dopo, giorno stiamo perdendo, mentre la Lega e le sue parole d’ordine continuano a crescere nel gradimento degli italiani.
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E se servisse cambiare registro? Smetterla di seguire Salvini sul suo terreno. Non rispondere insulto a insulto. Uscire dal cerchio di chi la pensa o vota come noi: incontrare, parlare, ascoltare, rispondere, dialogare con quelli un po’ diversi da noi, cioè la grandissima
maggioranza degli italiani che sta alla finestra, che non si è ancora schierata con i porti aperti o i porti chiusi. Senza grida, senza insulti, opponendo i semplici numeri, i dati veri alle fake news, la semplice verità alle bugie. Se ognuno si impegnasse in questo lavoro di «controinformazione», se si desse un compitino settimanale: dialogare civilmente con due o tre vicini di casa, compagni di lavoro, amici di Facebook. Se ognuno di noi proponesse non certezze granitiche, ma la voglia di capire, di andare a fondo ai problemi, di sapere come vivono ogni giorno gli esclusi, i poveri, gli ultimi arrivati. È una strada più difficile – com’è più facile rispondere con un insulto o mettere la propria firma a un ennesimo appello – che presuppone il rifiuto al nostro narcisismo, una mente aperta, la disposizione all’ascolto dell’altro, ma forse darebbe un qualche frutto. Solo una risposta dal basso, capillare, nascosta, potrebbe forse fermare la corazzata in armi della Nuova Destra.
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La democrazia non è una cosa semplice. Più che legittimo pensarla in modo diverso sul «governo del popolo» (così insegna l’etimo): cioè su come – attraverso quali sedi, strumenti, leggi, istituti – il povero popolo possa esercitare il suo potere di indirizzo e controllo sul Governo dello Stato. Qualcuno sostiene – anzi, è opinione corrente – che la democrazia è diventata una faccenda complicata perché siamo diventati in troppi: «Era più semplice nell’antica Atene!». Sbagliato: basta ripassare un po’ di storia; anche ad Atene l’esercizio della democrazia era faccenda assai discussa e contrastata. Bastava un niente e la democrazia si voltava in tirannide. In tutti i casi, «per fare una democrazia», proprio a metà strada tra popolo e governo, c’è il tema della rappresentanza. La soluzione del famoso binomio gramsciano: governati e governanti. Nella democrazia rappresentativa – quella nata dalla Rivoluzione francese e approdata nella nostra Carta costituzionale – i rappresentanti, cioè i governanti, sono eletti a suffragio universale, mentre i partiti politici (non a caso, citati e protetti dalla Costituzione) sono il tramite perché tutta l’operazione vada a buon fine. Nei momenti di crisi – e ancora ci viene in soccorso Antonio Gramsci: «La crisi è quando il vecchio muore e il nuovo non riesce a nascere» – cioè qui e ora, dentro la difficile era che stiamo attraversando, anche la democrazia entra in crisi. Le sue forme tradizionali non sembrano più né efficienti né efficaci: istituti limitati, insufficienti, retorici (se pensiamo al suffragio universale e alle elezioni periodiche), o addirittura dannosi e controproducenti (la grande crisi dei partiti). Insomma, se da sempre la democrazia non è una cosa semplice, da Tangentopoli in avanti, cioè da un quarto di secolo, la faccenda si è fatta sempre più complicata. Eppure, la nostra classe politica – tutta: maggioranza e opposizione, destra, centro e sinistra – non sembra si sia accorta di nulla. Continua per la sua strada. Il movimento grillino, guarda a caso, si è trasformato in partito a tutto tondo nel breve volgere di due anni. Il Partito Democratico, attraversato da correnti impetuose, discute e si accapiglia su come rifondare un «grande partito di massa». La Lega si organizza come un vero e proprio partito-esercito (modello spartano più che ateniese). Alla sinistra del PD si fondano e rifondano partitini puntualmente destinati allo zero virgola.
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Bisogna ammetterlo, uno dei pochissimi che si è accorto che la democrazia ha bisogno di sperimentare forme nuove (se non vuole arrendersi alla tirannide) è il vecchio comico Beppe Grillo. Così ha lanciato, un po’ a casaccio, due sassi nello stagno della politica. Primo sasso: «Uno vale uno». Secondo sasso: «Uno vale l’altro». Davanti all’assoluto discredito in cui versano i governanti (eletti a suffragio universale e candidati nelle liste di partito), Grillo arriva a proporre un parlamento con il metodo dell’estrazione a sorte di cittadini incensurati. Quella di Grillo è una battuta, anzi, una provocazione. Ma coglie a pieno un sentimento diffuso di sfiducia verso le forme della rappresentanza, gli istituti di governo, la politica tout-court. E se il popolo – ognuno di noi – non si sente più rappresentato, vuol dire, né più né meno, che la democrazia è malata.
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Malata quanto? Molto, mi viene da dire. Tanto malata – bloccata, banalizzata, screditata – che può rischiare anche di lasciarci le cuoia. Per lasciar posto alla tirannide, al «governo di uno solo» (uno come Pericle, o Mussolini, o Matteo Salvini). Da qualche parte, però, qualcuna/o ragiona e sperimenta nuove sedi e nuove forme di democrazia. La sindaca Ada Colau e tutta l’esperienza della nuova municipalità di Barcellona è oggi un grande laboratorio politico. E altrove, in tante realtà periferiche, nelle città, nei movimenti (penso alla grande novità del Movimento dell’Acqua Pubblica e più in generale alle battaglie per i Beni Comuni) si lavora concretamente per fondare nuove forme della rappresentanza, nuovi istituti per l’esercizio del controllo popolare. Non è per nulla scontato che queste nuove istanze ed esperienze riescano a fare breccia nella «testa quadra» di una classe politica abituata a vecchi rituali e affetta da nuove miopie. Ma per la grave malattia che si è buscata la democrazia, non vedo altre medicine
in circolazione. Ci vorrà tempo, forse parecchio, ma «la vecchia talpa lavora». Ed è forse proprio questo lavoro di scavo, la sperimentazione di nuove forme di democrazia partecipata nelle città e nei quartieri, che può costruire pezzo a pezzo un’Italia migliore. Un regalo che continuano a prometterci, ma che nessun leader (vecchio, nuovo o seminuovo) è riuscito a garantirci.
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Lo sanno tutti, Russia 2018 è stato un affarone. Un mastodontico business economico e mediatico. Stadi colmi fino all’orlo e più di un miliardo di telespettatori. Un trionfo per lo zar Putin. Un’iniezione di popolarità per il declinante Macron. Dopo il fischio finale, a Parigi una folla immensa ha festeggiato fino a notte alta. Perché la grande Francia ha battuto la piccola Croazia e si è laureata campione del mondo per la seconda volta nella storia secolare del «gioco più bello del mondo». Ma attenzione a quello che vi raccontano. Non è proprio vero che ha vinto la Francia. I vincitori, quelli veri, sono due uomini. Molto diversi tra loro. Uno è un mingherlino, 1,74 per 65 chili di peso, l’altro una torre di un metro e novanta. Il piccoletto è un croato, il gigante è un serbo. Tutti e due erano bambini al tempo della guerra jugoslava, una delle più sanguinose della storia. Luka Modrić in quella guerra ha perso madre e padre, uccisi dalle milizie serbe, ha dovuto fuggire all’ovest, un «rifugiato» come tanti altri, prima e dopo di lui. Ma era bravo a giocare a calcio. Anzi, era bravissimo. La sua favola ha un lieto fine: è diventato il regista del Real Madrid, la squadra più titolata del pianeta. Mentre Modrić, come capitano della nazionale croata, superava i quarti di finale e poi le semifinali di Russia 2018, il gigante serbo Novak Djoković, di professione tennista, era impegnato nel torneo più antico e prestigioso del mondo. Era arrivato a Wimbledon dopo un anno terribile: infortuni a catena, morale a terra, nessun torneo vinto. Ora Djoković sembrava rinato, anche se in semifinale doveva affrontare il numero uno del ranking, lo spagnolo Nadal. Così un giornalista ha chiesto al piccolo Modrić per chi tifasse: per Djoković o per Nadal? Per Djoković, ha risposto il centrocampista croato. Stupore del giornalista: Ma è serbo! E Modrić, l’orfano di guerra Modrić, ha spiegato che lui non voleva avere la testa nel passato ma nel futuro. Voleva pensare alla pace, non alla guerra, Intanto, a Londra, un altro giornalista ha chiesto a Novak Djoković per chi tifasse nella finale del campionato del mondo: per la Francia o per la Croazia? Per Modrić e per la Croazia, ha risposto il grande tennista serbo. In Serbia e Croazia, storicamente nemiche, con due governi fortemente nazionalisti, le dichiarazioni dei due campioni hanno scatenato un putiferio di critiche, polemiche, perfino minacce. Ma né Modrić né Djoković hanno ritrattato di una virgola. Poi sappiamo com’è andata. Djoković ha vinto la semifinale contro Nadal, quasi sei ore di gioco, e anche la finale, aggiudicandosi l’insalatiera d’argento di Wimbledon. La Croazia di Modrić si è invece dovuta piegare alla fortissima Francia, anche se il regista istriano è stato eletto miglior giocatore del torneo, pallone d’oro di Russia 2018. Ma non c’era bisogno di coppe e insalatiere, il piccolo croato e il gigante serbo avevano già vinto. Per la loro amicizia, suggellata dalle foto in rete che li ritrae insieme sorridenti, e per quelle poche parole, così semplici, così normali ma coraggiose che sanno di pace.