Sarajevo dopo la guerra: conseguenze e prospettive
Dicono di Sarajevo
Oggi quando si parla della mia città, spesso sento dire che Sarajevo non è più la città di «allora», la situazione demografica è cambiata, la città è piena di gente venuta da «qualche parte», e questa gente avrebbe cambiato la fisionomia della città per trasformarla in città di provincia o grosso paese di campagna.
Non credo in un cambiamento così radicale, questa città non è mai stata una metropoli e non lo sarà mai. Sarajevo, come tutte le città jugoslave, viveva uno spirito di «unità e fratellanza» nato dal suo essere multietnica e «multi-religiosa» (nel comunismo entrambe queste peculiarità non dovevano emergere in quanto tutti dovevano apparire uguali e per questo si enfatizzava questo spirito). Con la guerra e, ironicamente ancora di più dopo la guerra, tutte le persone che erano o di etnia/religione minoritaria oppure proveniente da matrimoni misti, si sono sentite emarginate e si sono trasferite nelle zone dove la propria etnia era maggioritaria oppure hanno abbandonato la Bosnia ed Erzegovina.
La condizione delle minoranze
Queste persone durante la «vecchia» Jugoslavia erano avvantaggiate perché facevano parte integrante, non discriminata di una nuova nazione. Oggi Sarajevo è multietnica e multi-religiosa, ma con una componente etnico/religiosa maggioritaria favorita rispetto le altre.
Mi chiedo se sarebbe così, in una situazione economica e politica stabile. Credo di no! Vedo somiglianze con quanto avviene in Italia. Come per gli italiani lo straniero rappresenta una minaccia per il lavoro e per la stabilità economica del paese, allo stesso modo i nostri politici indicano in quelli di etnia/religione diversa una minaccia per la maggioranza. Dunque la politica e la situazione economica sono i veri motivi che rendono l’intera Bosnia ed Erzegovina, per non dire l’intera Europa, un paese di difficile convivenza.
Come croata/cattolica devo ammettere che ho più difficoltà a trovare lavoro rispetto a un bosniaco/musulmano, ma questo avviene a causa della situazione politica, e anche per colpa dei politici croati che non s’impegnano per i diritti dei croati di Bosnia, ma si concentrano soltanto su una parteàdello Stato dove i croati sono la maggioranza. Lo stesso credo che valga per le altre etnie minoritarie in altre zone della Bosnia ed Erzegovina. Il problema è che lo Stato è praticamente diviso e ogni etnia sta bene là dove è maggioritaria, e a questo possiamo aggiungere che è più facile trovare lavoro se appartieni a un partito che ti appoggia.
Clientelismo di partito
Penso che questo sia conseguenza del comunismo, quando potevi ottenere un buon posto di lavoro, o salire la scala sociale soltanto se eri membro del partito o se avevi il tesserino rosso; oggi non ci chiedono più il tesserino rosso ma devi avere un tesserino del partito al potere per essere agevolato. Questo stato di cose non permette di cambiare la situazione politica del paese, perché tutte le persone che hanno trovato lavoro in questo modo sono ostaggi dei partiti politici che li hanno aiutati. A questo possiamo aggiungere che la Comunità internazionale, che ha una forte presenza in Bosnia ed Erzegovina, e senza la quale nulla si può fare, spesso è passiva e preferisce mantenere l’attuale status quo.
Tutto ciò rende lo Stato instabile e mentre i nostri vicini vanno avanti e si sviluppano anche grazie agli investimenti esteri, noi restiamo nell’ombra. Alcuni colleghi che lavorano in alcune ambasciate mi raccontavano che spesso ricevevano delle telefonate in cui si chiedeva loro con chi trattare, parlare, per aprire un’impresa in Bosnia ed Erzegovina, perché non si capisce di chi sia la competenza: se lo Stato, le Entità (Federazione o Repubblica Serba) oppure i singoli Cantoni (Knton).
Piccoli segni di convivenza
Accanto e oltre questo quadro negativo, ci sono anche piccoli segnali positivi : ad esempio la maggior parte degli abitanti di Sarajevo ama la propria città e la mescolanza di religioni ed etnie. Per cui festeggia le feste con gli altri e degli altri concittadini. Ci scambiamo piccoli doni per le feste degli altri (si tratta dei dolci tradizionali, della carne di agnello per la festa di Ramadan, le uova colorate per la Pasqua).
Alcune persone di confessione o fede diversaàentrano nelle chiese a pregare – e non solo a Sarajevo – e non hanno il timore che stare nel luogo di culto dell’altro li possa rendere meno fedeli e appartenente alla propria religione.
Nelle scuole e in particolare nella scuola interetnica, dove io insegno, i ragazzi studiano e giocano insieme, festeggiano i compleanni gli uni degli altri. I loro genitori, assieme ai professori, insegnano che l’altro non è una minaccia.
Teniamo poi ogni anno gli incontri degli insegnanti di religione, e ci scambiamo le nostre esperienze e cerchiamo di aiutare i colleghi che fanno parte della minoranza.
Infine se molti partiti guardano il loro particolare, ci sono anche partiti che lavorano per il paeseàe non solo per l’etnia che rappresentano.
Da questo emerge che se guardiamo la vita quotidiana e i rapporti umani possiamo dire che la Bosnia ed Erzegovina è un paese europeo in cui la convivenza e la multiculturalità reggono ancora.
Anche per questo credo che la proposta di Bernard-Henri Lévy di favorire l’entrata del mio paese in Europa sia un’ipotesi da accogliere e realizzare, perché c’è ancora un politica partitica di divisione, ma tra la gente il sentimento comune è di convivenza.
Vikica Vujica
cittadina di Sarajevo,
docente alla facoltà di Teologia di Sarajevo