Ruanda

di Alfier Cecilia

Il piccolo Ruanda (26.338 chilometri quadrati), con i suoi undici e più milioni di abitanti, è densamente popolato. Per il suo paesaggio è detto il paese delle mille colline. Si trova nell’Africa centrale, nella lingua di terra fra il Nilo e il fiume Zaire. Molta parte del suo territorio è a 1500 metri sul livello del mare. A ovest ci sono le foreste pluviali che lentamente si diradano. La catena di vulcani Virunga è uno degli ultimi rifugi al mondo per i gorilla di montagna, resi famosi dal film Gorillas in the Mist. Ben il 10% del territorio del Ruanda è parco nazionale o riserva forestale, in proporzione ben più degli altri Stati africani. Confina con Uganda, Congo (ex Zaire), Burundi e Tanzania.

Arrivando al moderno aeroporto di Kigali e percorrendo le strade della capitale, ma anche osservando le campagne verdeggianti e fertili, è difficile pensare che il Ruanda abbia problemi di carattere ambientale, che le persone siano malnutrite e povere. Questa situazione è il risultato di forze che vanno capite individualmente prima che collettivamente.

Cenni storici

Fra il 2000 a.C. e il 1000 d.C. si verificarono intense migrazioni di popolazioni, a ondate successive, fra i laghi della Rift Valley dell’Africa Centrale. Questi popoli, detti Pigmei, vivevano nella foresta raccogliendo frutta e cacciando. I loro discendenti, che sono ancora cacciatori-raccoglitori, sono noti come Twa e rappresentano oggi circa l’1% della popolazione ruandese. Per i successivi 500 anni nuove persone migrarono nell’area: erano coltivatori organizzati in clan di famiglie collegate fra loro. Queste popolazioni, che oggi rappresentano oltre il 90% dei ruandesi, sono note come hutu.

Fra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo d.C. un altro gruppo di persone, conosciute come tutsi, emersero quale potenza dominante economica e militare, erano allevatori. Sostenevano che il loro potere derivasse direttamente dagli dei. Gli europei erano affascinati dai tutsi, li definirono come razza superiore, «troppo belli per essere negri»: erano alti, con la fronte larga e le braccia affusolate.

Dopo che l’Africa venne divisa nel 1894 dalle potenze europee al Congresso di Berlino, i primi colonizzatori del Ruanda furono i tedeschi, che misero i tutsi a capo del nord del paese. Anche i belgi continuarono con una politica di controllo indiretto del Ruanda e inizialmente sostennero il potere dei tutsi. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale e la nascita delle Nazioni Unite, si assistette a un cambio di politica: una nuova generazione di colonizzatori, stanca di sostenere elitismi razziali, si schierò dalla parte degli hutu, anche perché i tutsi sostenevano quella visione di panafricanesimo, che era percepita come una minaccia dall’Europa. Nel 1959 gli hutu insistettero per il cambiamento, ma i leader tutsi resistevano. Ci fu un’ondata di violenza, dapprima ai danni dei capi, poi estesa a tutta la popolazione tutsi. Fra il 1960 e il 1962 furono uccisi 10.000 tutsi e 120.000 furono costretti a emigrare negli stati confinanti. Nel 1961, con il supporto delle autorità belghe, la monarchia fu abbattuta con un colpo di stato costituzionale. Un anno dopo fu proclamata l’indipendenza e il distacco dal Burundi. L’odio fra gli hutu e i tutsi si mantenne vivo fra il 1961 e il 1967, a causa di alcuni attacchi condotti dai rifugiati tutsi con base in Uganda e Burundi. Nel luglio 1973, Juvenal Habyarimana divenne presidente con un colpo di Stato. Nel 1987, a venticinque anni dall’indipendenza, il governo aveva ottenuto buoni risultati: aiuti internazionali, strade asfaltate, acqua potabile accessibile e sani rapporti col Burundi. Tre anni dopo il presidente annunciò che sarebbe stato introdotto il multipartitismo e che lo Stato e il partito sarebbero state due cose separate.

A ottobre 1990 quattromila tutsi attaccarono il Ruanda, sotto la sigla dell’RPF (Fronte Patriottico Ruandese). Guidati da Fred Rwigyema, dichiararono che il processo di riforme era inadeguato e che il presidente doveva andarsene. Le truppe governative erano sostenute da Francia, Belgio e Zaire. Cominciò la guerra civile. Rwigyema rimase ucciso il primo giorno di invasione, gli succedette alla guida dell’esercito il giovane Paul Kagame, nato nel 1957. La sua famiglia faceva parte della minoranza tutsi. Quando fu vicina l’indipendenza, scoppiarono i pogrom contro i tutsi e la sua famiglia, come migliaia di altre, fu costretta a scappare in Uganda, quando lui aveva cinque anni. Nel 1981, Paul Kagame si unì a un gruppo di ribelli in Uganda, capeggiati da Yoweri Museveni. Nel 1986 rovesciarono il regime in Uganda e Museveni ne divenne presidente. Ecco il curriculum del nuovo capo dei tutsi ribelli in Ruanda. I negoziati per il cessate-il-fuoco iniziarono a luglio 1992 e si conclusero a gennaio 1993, con la vittoria dei tutsi. Come risultato, il Fronte Patriottico Ruandese rinnovò i suoi attacchi e raddoppiò il suo territorio in tre giorni.

La guerra civile fece uscire l’opposizione politica al governo Habyarimana. Fra aprile e luglio 1994, gli ufficiali hutu non gradirono di dover condividere il potere coi tutsi, cominciò il genocidio. Tutto iniziò quando, il sei aprile, l’aereo che trasportava il presidente Habyarimana venne abbattuto da assassini sconosciuti. Gli abitanti dei villaggi si trasformarono in squadroni della morte, la radio difondeva messaggi di odio. La milizia hutu uccise a manganellate e machete un milione (500mila, secondo fonti indipendenti) di persone, per lo più tutsi, ma anche hutu non collaboranti. Il genocidio si fermò solo quando mister Kagame spazzò via i colpevoli e li confinò a est dell’attuale Congo (allora Zaire). Dalle foreste pluviali, gli esecutori del genocidio si raggrupparono e condussero raid in Ruanda. Paul Kagame rispose invadendo il grandissimo Congo. Il suo scopo iniziale era di colpire gli attuatori del genocidio, che si erano rifugiati là. I suoi uomini uccisero in Congo, fra il 1996 e il 1997, circa 200mila persone, fra cui molti civili. Scoprirono che il Congo era facile da conquistare. Il suo leader, Mobutu, era impopolare e i suoi soldati, non pagati, fuggivano via. I ruandesi appoggiarono un rivoluzionario congolese, Laurent Kabila, e lo misero alla testa dei ribelli. Gli uomini di Kagame marciarono per 1600 chilometri, rovesciarono Mobutu e imposero Kabila a capo del Congo. Fu tutto talmente rapido che agli esterni parve una rivolta casalinga. Con un voltafaccia, Kabila si mise ad aiutare gli autori del genocidio, cosa che spinse i ruandesi a una seconda invasione nel 1998. Questa volta Zimbabwe e Angola intervennero in aiuto del Congo. Fu l’inizio della guerra panafricana, in cui morirono fra 800mila e cinque milioni di persone.

Luci e ombre nel Ruanda di Paul Kagame

Mister Kagame è un enigma. Si presenta come un austero tecnocrate, però sempre attento alle innovazioni, parla del Ruanda come di un business.

Il Ruanda è uno dei pochi paesi africani ad aver raggiunto gli obiettivi del millennio, fissati dall’agenda delle Nazioni Unite, per quanta riguarda economia, salute, riduzione della mortalità infantile, copertura vaccinale. Si va verso la copertura sanitaria totale. L’economia dipende molto dal turismo e dall’esportazione di minerali, caffè e tè. In vent’anni di presidenza Kagame (dal 2000) il Ruanda è diventato non solo più pacifico, ma anche – se pur in misura modesta – prospero. Il reddito pro capite che era di 150 dollari è salito a 700. Questa rinascita richiedeva una gran quantità di aiuti internazionali. Nel 2006 questi aiuti rappresentavano un quarto del PIL, adesso sono circa il 5%. Dal 2000 il Ruanda ha una crescita media dell’8% l’anno (con un rallentamento nel 2017), il che ne fa una delle economie mondiali che crescono più velocemente (ma ancora una delle più povere). Molti parlano di miracolo ruandese e guardano a esso come lezione per lo sviluppo. La prima impressione che si ha, entrando in Ruanda, è spesso eccellente. Le strade di Kigali, la capitale, sono sicure e pulite. Ma brulicano di poliziotti, mentre non si vedono prostitute, venditori ambulanti e mendicanti che vengono portati in «campi di transito» e frustati. Il ministro della giustizia dice che sono campi di rieducazione per piccoli criminali. Dal punto di vista dei diritti delle donne sembra molto avanzato: esse rappresentano il 56% dei deputati al parlamento. Peccato che il parlamento serva solo a mettere il timbro sulle decisioni di Kagame. Il Ruanda è di fatto uno Stato di polizia, dove i media sono rigidamente controllati e gli spazi per l’opposizione si fanno ogni giorno più stretti.

Il 4 agosto 2017 i ruandesi hanno votato per dare a mister Kagame un altro mandato: ha vinto con il 98% dei voti. Ha preso il 95% dei voti nel 2003 e il 93% nel 2010. A questo punto la Costituzione gli impedirebbe di candidarsi un’altra volta, ma nel 2015 il partito di governo, il Fronte Patriottico Ruandese, ha approvato una «petizione spontanea» per permettergli di rimanere in carica. Teoricamente, Kagame può rimanere presidente fino al 2034, quando avrà 77 anni. I seguaci e gli ammiratori di Paul Kagame credono che un uomo solo al comando sia molto meglio per lo sviluppo che non fazioni litiganti. In Africa molto spesso il multipartitismo è degenerato in faide tribali e il Ruanda non può permettersi questo rischio.

Seguendo la lenta crescita economica dei primi due quarti del 2017, si può dire che l’economia del Ruanda si è sostenuta grazie alle performance del settore agricolo, che hanno contribuito all’abbassamento del prezzo del cibo e dell’inflazione in generale. Malgrado questo progresso, il Ruanda rimane vulnerabile agli shock esterni e ai pericoli fiscali. I maggiori rischi per l’economia sono legati alle condizioni atmosferiche che possono rovinare i raccolti. Come risultato degli sforzi politici fatti, il Ruanda è al secondo posto per facilità di investimenti nell’Africa sub-sahariana e al quarantunesimo nel mondo. Tuttavia rimane senza risposta l’interrogativo di fondo: per quanto una minoranza (i tutsi di Paul Kagame) potranno governare una maggioranza?