Ritorno alla terra
Beppe Fenoglio scrive, ne La Malora:
Per venire a Tobia, lui m’ha sempre trattato alla pari dei suoi figli: mi faceva lavorare altrettanto e mi dava tanto da mangiare. A lavorare sotto a Tobia c’era da lasciarci non solo la prima pelle ma anche un po’ più sotto, bisognava stare al passo di loro tre e quelli tiravano come tre manzi sotto un solo giogo. Almeno dopo tutta quella fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva già più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava più dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia lo picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.
La scena, ambientata tra i contadini delle Langhe, potrebbe essere probabilmente rubata a qualsiasi contesto rurale italiano almeno sino alla Seconda Guerra Mondiale, se non anche oltre. Allo scoccare dell’Unità d’Italia, la popolazione conta circa 22 milioni di abitanti; di essi – dice l’Istat – il 71,9% dei maschi e il 66,5% delle femmine è occupato nell’agricoltura. Nel 1861 si sono prodotti: 32 milioni e 900mila quintali di frumento, 14,400 milioni di quintali di granoturco, 2,802 di riso, 2,307 di avena, 1,821 di orzo, 1,680 di segale. Altri prodotti (in migliaia di quintali): patate: 8.640; olive: 10.548; olio d’oliva: 1.418; arance: 1.110; limoni: 1.100; vino: 19,200 milioni di ettolitri.
I numeri parlano poco, forse. Ma suggeriscono come per moltissimo tempo il lavoro della terra è stato il lavoro tout court. I numeri però non dicono le condizioni di vita dei contadini: un’attività destinata per lo più all’autosostentamento, fatta da nuclei famigliari che sopravvivevano nella miseria, attaccati – come l’acciuga di Fenoglio – al filo dei capricci del tempo atmosferico, proprietari ovunque di appezzamenti microscopici, accanto alle altre forme di gestione: alcune aziende agricole (pochissime quelle meccanicizzate), la mezzadria, specie al centro, e il drammatico bracciantato al sud, i cui ultimi sviluppi echeggiano nei drammi di Rosarno.
La situazione del resto del mondo non dovrebbe essere stata troppo diversa, al tempo, fatta eccezione per la quantità di terra disponibile. Poi, con le macchine, il petrolio e la chimica, il Novecento cambia il volto dell’agricoltura, proiettandola nel meccanismo del mercato globale, che destina alcuni paesi a essere produttori – i «granai» delle altre nazioni – e altri, concentrati su settori produttivi diversi, meri consumatori.
Perché mangiare, si deve. E anche se l’agricoltura contribuisce solo al 3 per cento del PIL mondiale (dati da The Economist/Internazionale), è evidente che chi possiede la terra e, insieme, chi cerca di ottenere il monopolio delle sementi, si candida a sedere tra i potenti del pianeta.
Ma parlare di agricoltura non è solo riportare alla memoria un tassello essenziale della storia italiana e mondiale, ma significa anche gettare uno sguardo su di un modo di lavorare, su di un tipo di vita comunitaria, su di un certo modo di abitare lo spazio e il tempo. È interessante come il Censis, nello scorso rapporto sulla situazione sociale del paese (il 46°, del 2012), facendo riferimento alle risorse che gli italiani hanno messo i campo per resistere alla crisi economica, parli di un recupero dello «scheletro contadino del modo di pensare e vivere (nella sobrietà e pazienza)». E non è un caso che l’expo 2015 abbia come tema cardine Nutrire il pianeta. Energia per la vita, con il chiaro obiettivo di portare all’attenzione della massa questioni ormai irrinunciabili come la sostenibilità e l’essenzialità.
In un mondo in cui il tasso di obesità cresce, nel ricco e soddisfatto occidente, a vista d’occhio, pareggiato solo dalle malattie cardiovascolari e dalle forme tumorali, dedicare un monografico all’agricoltura vuol dire affrontare il crocevia socio-economico dei prossimi anni. Ma non solo: significa portare a tema la malora dalla quale proveniamo, per comprendere come l’overdose di ricchezza stia tradendo non solo la memoria della miseria dei nostri nonni, ma anche la responsabilità per le generazioni che verranno.