Riscoprire nell’educazione il principio speranza
«L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono»1.
L’usura delle parole di cui, a volte, sembra soffrire il nostro tempo, causa slittamenti di significato che hanno conseguenze pratiche spesso deleterie.
Così, ad esempio, quando si parla di educazione molti intendono scuola, attribuendo (i genitori) o assumendo su sé (gli insegnanti) il compito di trasmettere non solo nozioni, ma anche stili di vita, forme di pensiero, costumi e senso comune.
Eppure un grande maestro come Mario Lodi ci ricordava sempre che l’educazione non comincia (e non finisce) a scuola, ma che il bambino e la bambina arrivano già alla scuola dell’infanzia, e ancor più alla primaria, con un bagaglio culturale ed emotivo appreso in famiglia, dall’ambiente circostante, dai media, di cui è necessario tener conto.
Costruire una rete
Partendo da questa prima considerazione, ancora nella primavera del 2011 cominciammo a elaborare, proprio su indicazione e impulso di Mario, un progetto di collegamento fra le varie realtà di pratica educativa, singole o associate, che conoscevamo a quel tempo.
Era necessario cominciare a costruire una rete, cioè un intreccio di punti diversi che comunicassero fra loro senza un centro a cui far riferimento di necessità e d’obbligo.
Era importante che questa rete sapesse di avere una vocazione educativa, nel senso sopra illustrato.
Era fondamentale che il lavoro, i rapporti fra le persone, l’organizzazione dei mezzi e la definizione dei fini fossero improntati a uno spirito di cooperazione, persino antagonista rispetto all’enfasi che viene posta sulla competizione e sul «merito»,àinteso come formalizzazione e cristallizzazione delle differenze che separano gli individui.
Ponendo l’accento su quest’ultima parola, che è, insieme, antica e, in quanto mai compiutamente realizzata, modernissima, vorremmo sottolinearne la portanza che arriverebbe persino a un cambio di paradigma.
Nella continua attenzione, che diventa a volte quasi ossessione, per la dimensione economica del vivere umano, è d’uso considerare che la «nomìa», cioè l’amministrazione della cosa domestica – l’«oìkos» -, debba partire da una nozione di scarsità, da ciò che manca, dai beni che è necessario acquisire per il proprio benessere.
Volendo essere semplici al limite dell’ingenuità, è come se dalla casalinga che fa la lista della spesa alla presidente del Fondo Monetario Internazionale (che magari ogni tanto la lista della spesa di casa sua la compila) tutti noi fossimo costantemente impegnati all’acquisizione e al risparmio.
Comportamento del tutto razionale, quando si tratta dei beni primari e delle esigenze vitali. È difficile finire di sorprendersi, ad esempio, davanti alla sorpresa di chi continua a chiedersi come mai centinaia di migliaia di persone si muovono, in condizioni drammatiche, da zone di guerra e di fame, per dirigersi verso luoghi del mondo in cui sperano di trovare una vita migliore.
Comportamento che comincia a diventare un po’ meno razionale entrando nella sfera dell’inconscio, del desiderio, dell’oggetto di analisi psicoanalitica, quando si tratta di oggetti o funzioni che non soddisfano più esigenze primarie, ma altro.
Dall’ossessione economicistica al linguaggio del dono
In un’epoca e in un mondo nei quali l’ansia maggiore sembra essere quella della misurabilità delle prestazioni, così da quantificarne estensione e durata, la riflessione che ci è parsa più urgente è stata quella di cercare una possibilità altra, che consideri la dimensione educativa come non necessariamente soggetta a calcolo e bilancio economicistico. Scrive Beatrice Bonato: «Contro la perfezione imposta dalla società neoliberale o dal capitalismo tecno-nichilista, non è l’appiattimento che vorremmo salvare, quanto una rinnovata capacità di apprezzare ciò che non ha prezzo, e per cui èàdifficile non usare il linguaggio del dono. (…) La dimensione del dono potrebbe interessare da vicino e da più lati la questione dell’insegnamento, consentendo di rovesciare in un pregio quella resistenza alla logica mercantile e tecnica imputata alla scuola come il suo più grave ritardo»2.
Siamo quindi partiti, nel 2011, dagli incontri preliminari di Verona e Drizzona (CR), fino al I incontro nazionale, che si tenne al Centro Culturale Lafogliaeilvento di Soave (VR) il 2 ottobre 2011. In quella occasione venne scritta la prima bozza, successivamente modificata e arricchita, della «Carta del Cammino», che definiva i fini che abbiamo scelto in comune di orientarci a realizzare e la strutturazione dei mezzi per la realizzazione stessa. Nella «Carta» si legge: «Siamo donne e uomini – mamme, babbi, insegnanti, educatori ed educatrici – che hanno scelto di condividere un cammino per conoscere, far conoscere, mettere in comune i pensieri e le esperienze di cooperazione educativa che agiscono in Italia.
(…)
Il senso comune e le decisioni istituzionali, anche e soprattutto per quanto riguarda la vita scolastica, sembrano andare nella direzione di tempi e modi di vita in cui i valori dominanti sono la velocità, la competizione, l’affermazione dei pochi (spesso aiutata da condizioni di partenza diseguali) a scapito dei molti.
Noi crediamo invece che, come ebbe a scrivere Alex Langer nel 1995, si ottenga «… un fiato più lungo» andando «…più lentamente… più in profondità… più dolcemente».
Da questo può nascere un movimento che unisce perché altre e altri vi si riconoscono e hanno la volontà di sostenerlo.
Un movimento fatto da persone che hanno lo stesso fine e lo stesso obiettivo educativo: la formazione di cittadini e cittadine democratici che abitino una società in cui dall’egocentrismo si passa alla democrazia, alla conoscenza e all’applicazione delle buone leggi, a partire dal meraviglioso e fondamentale testo della Costituzione della Repubblica Italiana, per migliorare la vita di tutti.
(…)
Un movimento che unisce genitori, educatori, insegnanti, mettendo insieme le buone pratiche che in grande e spesso misconosciuta quantità e qualità esistono nella scuola e nell’azione educativa di gruppi, associazioni, comunità, donne e uomini che rendono ricco di energia e coraggio il nostro Paese».
Carlo Ridolfi
Vive e lavora a Padova.
È babbo, ferroviere, giornalista pubblicista.
Scrive di cinema su Verona Fedele e Note Mazziane.
Coordinatore della Rete di Cooperazione Educativa – C’è speranza se accade @, network di associazioni e donne e uomini che hanno a cuore l’educazione.
facebook.com/sequestoaccade
Fonti
1 Ernst Bloch, Il principio speranza, 1959.
2 Beatrice Bonato, Senso e non senso della competizione, in AUT AUT n.358. La scuola impossibile.