Ripensare la cittadinanza
Un approccio tradizionale
Che cosa evoca, normalmente, l’espressione cittadinanza?
Per tutti coloro che si sentono cittadini, il termine rappresenta, nella maggior parte dei casi, un modo per qualificare una comunanza di diritti, di libertà e di doveri che si giustifica sulla base dell’acquisizione, percepita come altrettanto comune, di idee, di valori, di principi e di esperienze.
In particolare, chi usualmente pensa alla cittadinanza guarda a tale concetto come a una qualità intrinsecamente presupposta, che si acquista mediante una sorta di prova preliminare di appartenenza collettiva, giustificata, a sua volta, da specifici rapporti di filiazione o da legami durevoli e visibili con un determinato territorio o con le autorità che su quel territorio esercitano i poteri sovrani.
È questo, del resto, l’approccio tipico con cui lo Stato regola la cittadinanza, o meglio, il suo acquisto e/o la sua perdita. E non è un caso che, nell’ambito della più classica dottrina dello Stato, lo Stato stesso sia descritto come entità composta di tre elementi necessari: il territorio, la sovranità e, per l’appunto, il popolo, come insieme di tutti coloro che godono della cittadinanza.
L’importanza della cittadinanza come status presupposto di natura fondamentale è, del resto, un dato concretamente apprezzabile: in linea di principio, senza il possesso di questo status non si gode di ciò che lo Stato riconosce in termini di piena garanzia di molteplici diritti, ovvero di completa accessibilità a prestazioni specifiche. Anche in tale prospettiva, non è un caso che la nostra stessa Costituzione protegga il cittadino da indebite privazioni dello status in questione, ossia da azioni finalizzate a escludere determinati soggetti dal novero di coloro che possono partecipare democraticamente alla vita delle istituzioni repubblicane (art. 22: «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome»). Né costituisce un caso che, anche nell’ambito del diritto internazionale, l’acquisto o la perdita di tale status non siano eventi integralmente rimessi all’assoluta disponibilità degli Stati, i quali, sia pur titolari, sul punto, di un potere normativo amplissimo e pressoché illimitato, non potrebbero comunque definire la cittadinanza in modo del tutto indipendente rispetto a elementi, anche minimi, di imprescindibile collegamento fisico-territoriale (così la Corte internazionale di giustizia, nel caso Nottebohm del 1955).
Alcuni fattori evolutivi
Tradizionalmente, quindi, gli ordinamenti giuridici statali cercano il modo di far coincidere la titolarità della cittadinanza con criteri che siano in grado di testimoniare o presumere, in sostanza, l’acquisizione effettiva di una nazionalità ben precisa, fatta di storia, luoghi e riferimenti condivisi (pur essendo chiaro che popolo e nazione non sono, tecnicamente, concetti inevitabilmente coincidenti).
È ancora valido questo approccio?
Lo sviluppo delle istituzioni europee, da un lato, ha avvicinato sempre di più i cittadini di Stati diversi che meno di un secolo fa si sono aspramente combattuti; anzi, la cittadinanza di uno Stato «membro» dell’Unione europea comporta automaticamente il riconoscimento di una diversa cittadinanza europea, che a sua volta implica la titolarità di diritti ulteriori rispetto a quelli della cittadinanza statale.
Dall’altro lato, i flussi migratori che interessano da tempo tutto il continente pongono delicate questioni di contatto e di dialogo con culture che tendono a porre costantemente sotto stress le regole e i principi cui si riferisce la cittadinanza nazionale; in proposito, sono molti gli Stati (così l’Italia), sia autonomamente sia sotto l’influsso dell’Unione europea e delle Nazioni Unite, che riconoscono spontaneamente a tutti (anche se non cittadini) gli stessi diritti «fondamentali», senza possibilità di discriminazioni irragionevoli. Ciò ovviamente è di immediata percezione con riguardo a quei diritti che si definiscono come inviolabili (art. 2 Costituzione), che numerose convenzioni internazionali ribadiscono e proteggono (tra tutte, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e che, per alcuni, individuano ormai una cittadinanza globale (o cosmopolitica).
È naturale, quindi, che i cittadini «tradizionalmente intesi» tendano a sentirsi schiacciati, in una crisi di identità che rende incerto ogni confine e che è fonte di equivoci, smarrimenti e conflitti.
Ma vi sono anche altri fattori evolutivi, o meglio «critici», da prendere in considerazione.
Anche la cittadinanza in senso tradizionale non è esclusiva; nei paesi nei quali si riconosce l’autonomia di enti territoriali diversi dallo Stato, alla cittadinanza statale si somma una cittadinanza locale e/o regionale, la quale è determinante per la definizione di diritti e di doveri ancora differenti. E anche questa cittadinanza, peraltro, è soggetta a una crisi evidente, poiché la sua determinazione può spesso condurre al rafforzamento di discriminazioni inaccettabili (in quanto irragionevolmente basate sulla sola provenienza nazionale dei soggetti di volta in volta considerati): ad esempio: è possibile sostenere che gli alloggi residenziali pubblici siano preferenzialmente riservati a chi risiede da almeno quindici anni in un determinato territorio? Si noti anche che una visione esclusivista della cittadinanza locale conduce talvolta all’emersione di paradossi apparentemente paralizzanti; ad esempio: se è vero, per un verso, che la cittadinanza locale di una grande città determina coloro che eleggono gli organi rappresentativi del governo cittadino, a sua volta legittimamente chiamato a definire condizioni e tariffe dei servizi locali di trasporto, è altrettanto vero che gli utilizzatori normali di tale servizio sono, usualmente e in gran parte, lavoratori o studenti che provengono da altre città e che non hanno la minima possibilità di incidere politicamente sulla programmazione generale del servizio.
Le nuove nozioni
Ai fattori evolutivi da ultimo descritti si deve aggiungere che vi è una discreta convergenza di opinioni sul fatto che la partecipazione alla comunità politica, come tipico portato della cittadinanza «classica», non è più l’unico modo di provare la propria effettiva adesione a una collettività; molti interpreti sottolineano che, a rigore, essere cittadino, oggi, significa sentirsi realmente tale nell’esercizio di prerogative o nell’adempimento di doveri che la comunità, nel suo complesso, considera come funzionali alla difesa e alla promozione di interessi essenziali e condivisi.
Essere cittadino, in altri termini, non è sempre e necessariamente un destino di luoghi o di genealogie parentali, ma è anche, e forse soprattutto, un’attitudine, un processo di somiglianza progressiva, che passa attraverso l’assimilazione di pratiche di impegno e di convivenza, e che in quanto tale esige uno spazio pubblico in cui svilupparsi, comunicarsi e trasmettersi (anche) di generazione in generazione.
Non è un caso che sia riapparsa, nel dibattito più recente, la nozione di denizenship, per indicare una forma di cittadinanza parziale e sovrapposta, che a certi aspetti si può aggiungere a quella più tradizionale al fine di predeterminare e regolare alcune conseguenze specifiche dell’assunzione di modelli comportamentali valutabili come coerenti con gli interessi di una o più comunità (e ciò anche in funzione di un eventuale e successivo riconoscimento della cittadinanza vera e propria).
Il tema è davvero complesso e affascinante, e simili sviluppi possono senz’altro salutarsi in modo positivo; si devono, tuttavia, avanzare alcune cautele. Può forse dirsi che, alle stesse condizioni, anche il modo di perdere la cittadinanza dovrebbe essere dinamico nel senso anzidetto? Può, cioè, inferirsi una sorta di «simmetria» tra il modo progressivo di acquistare, anche a certi fini, la cittadinanza e il modo di vedersela sottrarre, anche solo parzialmente, per il mancato adempimento di determinate azioni socialmente utili?
La delicatezza di questo profilo è evidente: poiché la cittadinanza resta, concettualmente, il presupposto per il riconoscimento di un’identità giuridica ben precisa (e quindi, di fatto, di un’esistenza individuale concreta e pubblicamente riconosciuta), gli Stati non dovrebbero essere così liberi di definirne i requisiti in senso incrementale e condizionante; il rischio in cui si può incorrere è quello di ammettere che il potere sovrano possa attribuire voti o punteggi al miglior cittadino.
Ma c’è dell’altro: molte delle disfunzioni in cui incappa la concezione «classica» della cittadinanza non derivano dalla definizione dei suoi requisiti costitutivi, quanto, piuttosto, dalla sua pretesa di definizione esclusiva dell’ambito di coloro che possono assumere decisioni «di governo»: i soli cittadini, certo, individuano chi può adottare decisioni vincolanti per tutti, ma non è detto che il modo di assumere tali decisioni debba per forza di cose essere impermeabile alla considerazione di soggettività altre e delle istanze che tali soggettività manifestano. A una concezione assolutizzante della cittadinanza, quindi, non si può rispondere solo con una concezione relativizzante; se ne possono, anche e semplicemente, temperare gli effetti mediante il riconoscimento di un potere di partecipazione e di interlocuzione pubblica.