Ridateci i doveri
Questo paese non si salverà
«L’unica cosa da fare è amare e perdonare.
L’unico peccato è essere avari nell’amare,
ma il nostro peccato attira l’amore di Dio.
Dio, chiamiamolo così, è uno che ama chi non sa amare.
Perciò, nonostante le potenti fabbriche di male, siamo salvi».
Luca Sassetti
Come un imperativo
Nel fondo della notte apro gli occhi di colpo. Buio attorno, la casa silenziosa. Non capisco chi mi abbia svegliata, né l’ansia che ho addosso. Tesa come per un allarme. Poi, ecco, di nuovo, da una casa affacciata sul cortile un pianto acuto. Il pianto di un neonato di pochi giorni, affamato, imperioso. È un bambino piccolissimo che reclama il seno materno. Riecheggia fra i palazzi addormentati, tra le vie deserte in cui lampeggiano ritmiche le luci gialle dei semafori notturni. Dopo due minuti, d’improvviso, il pianto cessa. Mi affaccio al balcone: una finestra, una sola, adesso è illuminata. Immagino una giovane donna assonnata che solleva il figlio dalla culla. Nel cortile, ora, il silenzio è tornato assoluto.
Mio marito e i ragazzi dormono: soltanto io mi sono svegliata, come se avesse suonato un segnale a me noto. Come se fosse urgente un mio alzarmi, un mio fare. Sono passati vent’anni dalla nascita di Giacomina, l’ultima. Quanto, però, è rimasto impresso nel fondo della mente quel timbro tagliente, il pianto di un figlio che vuole il latte. È come un imperativo, come un marchio. Il sonno delle mamme è più leggero. Una parte di me, tanti anni dopo, dormendo, resta ancora in allerta… quel marchio, scritto per sempre, nella memoria [da un racconto di mamma Paolina].
Quando i doveri sono muti
Chi ricorda più i doveri? Nella società che si scompone e si disgrega, si parla solo di diritti. Mai, o quasi mai, di doveri. Forse sembriamo o siamo veramente dei conservatori? Dipende sempre da cosa si conserva.
Chi crede soprattutto nel dovere dell’eresia; nella contesa tra rottamatori e rottamati, nuovo e vecchio, governo e piazza, pronuncia parole che pochi discutono e nessuno pratica più. Non si vive di soli diritti. L’Italia ha bisogno di una nuova pedagogia civile, incentrata sull’equilibrio fra doveri e diritti, sul principio di responsabilità, sui valori della solidarietààpolitica, economica e sociale.
Quando i doveri sono muti, la scena della democrazia è occupata dalla silenziosa disgregazione della società e dal fragore dello scontro fra i diritti. Diritti appunto, parola di cui si abusa. Bellissima parola, certo, di evangelica semplicità e suggestiva perché piace a tutti, ognuno promette e rivendica diritti. I diritti hanno bisogno dei doveri per vivere. Quando si offusca la categoria dei doveri, l’unità politica si disarticola, prevale l’egoismo degli individui, la democrazia si sfalda, l’esercizio effettivo dei diritti rimane affidato al caso o ai rapporti di forza.
Un nuovo senso del dovere
Le grandi agenzie educative, nel nostro paese, non ci sono più: né i partiti, né la Chiesa, né la famiglia. Se nessuno educa, allora ogni aspirazione diventa un diritto che tu esigi. Una politica che ha un frenetico bisogno di consenso, è difficile che punti sul sentimento del dovere. I doveri sono sempre quelli degli altri. Nessuno politico oggi parla di dovere. Lunghi anni di demagogia hanno disabituato gli italiani all’adempimento del proprio dovere, concentrando sulle varie «caste» l’intera responsabilità.
Quando è avvenuto il distacco dall’idea di dovere? IL PCI trasmetteva senso del dovere più che senso del diritto. Credo che nella sinistra, scomparsa l’antica classe dirigente, sia arrivata una generazione meno attenta al partito che a sé stessa, e stia maturando dentro di sé una forma di disprezzo per l’altro. Non sente il dovere di appartenere a una comunità e di servirla, mentre la ricostruzione di un senso di comunità è l’unico meccanismo che può far uscire dalla crisi che viviamo.
C’è una frase di Aldo Moro, tanto profetica da sembrare scritta per i nostri giorni: «Questo Paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Nessuno può dimenticare che se muore la regola, neppure le eccezioni possono sopravvivere. Una democrazia, infatti non vive di soli diritti e di giudici volenterosi, ma di adempimenti dei doveri, di forza morale, di rispetto delle regole, di fiducia nel futuro.
Cosa non si fa, per mantenere il consenso!
Ci troviamo di fronte a politici che inseguono, anziché guidare, a genitori che non educano, a figli viziati più che amati, a ragazzi cresciuti nel culto dei propri diritti, completamente assenti a quello dei doveri. Succede così che da una parte c’è indifferenza per i diritti sociali, che riguardano tutti; dall’altra i diritti individuali, pur affiancati dalle ambizioni pervasive del mercato, sono frenati dal rafforzamento dei diritti sociali. Purtroppo tali fenomeni contrapposti sono presenti, ma insieme blanditi e ignorati. È questa un’analisi certamente urticante, ma reale, di una situazione in grado di minare l’intero edificio sociale. Il rancore sembra avere saldamente preso il posto dell’antica contrapposizione. È un’amara sensazione che si prova. Ognuno urla il suo diritto, nessuno si occupa di quello dell’altro. Ogni compromesso è vissuto come tradimento. Mentre Amos Oz, il grande scrittore israeliano scrive: «Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita e dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e neppure idealismo, nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». L’uomo di potere mente quando smentisce. Quando dice quello che pensa è sincero, calcolando di essere gradito a chi ha la sua stessa concezione della vita. La sincerità, però, non è verità se non si cerca nel cuore il vero più dell’utile. Infatti spesso ciò che ha detto con sincerità ripugna alla decenza, al diritto, alla verità fattuale e molti, giustamente, insorgono. Allora, mentendo, l’uomo di potere smentisce di aver detto quello che davvero ha detto, per piacere anche a questi: l’uomo di potere non è in sintonia con la verità.
Gli Altri sono una priorità
Una regola d’oro, «ama il prossimo tuo come te stesso», che si trova in tutte le culture, afferma l’uguale valore di te e di me, corregge l’istinto cieco del farmi valere più di te. C’è, però, una proposta superiore alla parità tra me e te, tra me e gli altri. È l’etica della priorità degli Altri di Lévinas, inoltre il vangelo di Gesù: dare senza attendere restituzione, perdonare sempre, amare chi non ti ama. lo si trova tra i sufi mussulmani e certamente in Etty Hillesum,àebrea. Lo spirito che comunica in questo appello dice: ama il tuo prossimo più di te stesso.
Possiamo sentirci incapaci, ma non possiamo disconoscere che questo modello di vita è superiore e non è affatto sacrificale, anzi fa bene e produce il maggiore interesse di ciascuno. Col favorire l’altro, si crea un capitale etico di bene circolante, che ritorna a tutti, anche al malvagio. Donare non è perdere, ma arricchire di vera ricchezza, apre serbatoi di ricchezza interiore, che resta inutilizzata, quando impera l’etica possessiva ed egoista del capitalismo, il quale mi fa pena e rabbia per la condizione stupida e dolorosa in cui ha cacciato l’umanità.
Troppo spesso i cittadini hanno ritenuto che fosse sufficiente esigere buoni costumi dai politici, trascurando i propri doveri… È una spirale viziosa, che soffoca la democrazia.