Recuperare il senso della città
La città nasce come sistema di comunicazione contestualmente alla formazione del linguaggio codificato e delle istituzioni. La città si struttura come sistema comunicativo ma anche come sistema strumentale, e tuttora mantiene queste due dimensioni fondamentali. Naturalmente, in rapporto alle diverse culture che si sono alternate nel formare città, dove abbiamo un prevalere di culture comunicative troviamo città comunicative, dove prevalgono culture strumentali invece, città strumentali. In metropoli di trenta milioni di abitanti come Bombay, Tokyo o Città del Messico, la dimensione è prevalentemente strumentale, ed è quella che condiziona il nostro modo di fare città.
Modelli urbani
Per spiegare questo prevalere della dimensione strumentale delle città attuali, mi rifaccio a una definizione di Habermas, che nel libro «Teorie dell’agire comunicativo» cerca di dimostrare come gran parte delle istituzioni dipendano da questo agire comunicativo rispetto all’agire strumentale. Habermas distingue l’azione strumentale, finalizzata a ottenere determinati risultati, dall’azione comunicativa, volta all’efficacia nei confronti degli altri, di una società, e quindi dipendente da un consenso sociale.
A partire da questa distinzione, qualsiasi città è contraddistinta da un equilibrio tra questi due aspetti. Le due culture che hanno maggiormente incentivato lo spostamento verso un città prevalentemente strumentale sono lo sviluppo delle scienze della natura, assunte come paradigma per il loro successo, e il formarsi di una cultura individualistica figlia del liberalismo e del capitalismo moderno. La costruzione dell’individuo è stato poi il meccanismo sociale per privatizzare il più possibile e quindi per polverizzare la città. La città vista dall’alto oggi sembra esplosa, si chiama «diffusa», ha un costo energetico enorme e un costo sociale ancora maggiore perché rende impossibile a livello urbano la costruzione di capitale sociale, cioè di relazioni tra le persone. Ora, l’esperimento scientifico, tipico delle scienze naturali, è caratteristico di quell’azione finalizzata di cui parla Habermas, nel senso che quando uno scienziato fa una serie di esperimenti, se riescono, comunica i risultati nella società in cui vive, ma non per avere maggiori riscontri. Le conoscenze scientifiche e tecnologiche progrediscono senza bisogno di consenso, mentre invece tutte le forme artistiche, l’agire morale, le istituzioni in generale e il linguaggio stesso hanno bisogno di essere condivisi.
Un tempo l’arte fondava l’identità culturale delle città, che si sono sempre avvalse dell’architettura, dei monumenti, ecc. Oggi nelle città abbiamo perso quella capacità di produrre senso di appartenenza e capitale sociale che l’arte ha sempre comunicato. C’è una propensione a ibridare la cultura, per il fatto che non la usiamo più come strumento di comunicazione ma come intrattenimento disimpegnato. Quindi, a una scienza che era nata strumentale, con un’azione finalizzata, siamo arrivati oggi a delle espressioni artistiche che sono diventate strumentali.
Andare oltre la città strumentale
Senza partecipazione, senza il capitale sociale, senza il consenso dei cittadini che si mettono insieme, non si può immaginare di cambiare la realtà. Riguardo alla questione ambientale o energetica, senza la città non si fa nessun lavoro a favore del cambiamento climatico, dell’ambiente, delle energie rinnovabili, perché solo loro sono in grado di garantire quel consenso che può portare alla sostenibilità. C’è la necessità di motivare le persone, di una retorica morale seria, di aumentare la dimensione comunicativa della città in tutti i modi, feste, giornali, arti, istituzioni, associazioni… Bisognerebbe formare dei villaggi all’interno delle città, creare forme di autosufficienza che consentano di far sopravvivere delle comunità convinte, in esempi di autogestione. Queste dimostrerebbero che si può vivere con una conoscenza globale e con un radicamento locale in campo energetico, alimentare e finanziario. Ci sono delle città sostenibili in Inghilterra che battono moneta, quindi accanto a una moneta globale ne hanno una per il consumo locale. Servono esempi di come possano concretamente esistere delle forme partecipate con un’autonomia alimentare ed energetica «fuori dal giro».
Il problema della disponibilità energetica nella città ci dice che dovremmo realizzare degli insediamenti compatti, cioè tradurre l’attuale disgregazione urbana intorno alle città in strutture insediative compatte. Questo secondo tutti gli economisti e quelli che si occupano di energia, anche se non è facile da realizzare. La compattezza si può perseguire in due modi, o attraverso i grattacieli, o attraverso delle strutture relativamente basse come gli isolati urbani, aggiornati, riveduti e corretti nell’attualità, che portano a densità altissime e hanno una forma capace di produrre reti di spazio urbano pubblico e condivisibile, proprio quelle funzioni che aiutano la comunicatività delle città.
Riappropriarsi della comunicazione
Le strade sono sempre state costruite in città perché la comunicazione lo esigeva, ma quando sono state riempite di automobili, quantitativamente il numero dei rapporti sociali si è ridotto in modo drastico. Quindi dobbiamo progettare strade libere dal traffico, portare altrove il traffico veicolare per ottenere una certa comunicatività nelle strade. Con questo combiniamo tre aspetti molto importanti nella vita urbana di oggi: la socialità (comunicatività), la sostenibilità (minor consumo energetico della struttura compatta), la sicurezza. Molte analisi lo dimostrano. Se compariamo la struttura della città di Huston a quella di Siena, è lampante che Siena, fatta di isolati, è molto più comunicativa e sicura. E non abbiamo alcun motivo per non costruire delle città come Siena.
Non dobbiamo dimostrare di essere diversi dal passato, dobbiamo semplicemente cercare di vivere bene, meglio. Essere diversi dal passato è stato l’incubo dell’urbanistica del secolo scorso, infatti gran parte delle pianificazioni o utopie urbane del secolo scorso non hanno mai funzionato proprio perché il loro impegno era quello di differenziarsi, anziché chiedersi come si poteva stare bene. In molti hanno vissuto nell’illusione della pianificazione, dell’ingegneria economica oggettiva, scientifica, che non necessitava di consenso.
Ma la speranza-illusione di trattare la realtà con una logica matematica e formale è caduta da tempo nelle persone assennate, ora non si tratta di pensare un ritorno al passato, ma di costruire città fatte di strutture comunicative, perché questo è il problema del prossimo millennio.
Se non vogliamo vivere un secolo come quello scorso, di guerre e ideologie sanguinose, dobbiamo distogliere gli occhi dalle tecnologie scientiste e concentrarci sulle relazioni interpersonali a tutti i livelli, approfondire al massimo i linguaggi e i sistemi comunicativi, la possibilità di negoziare e discutere. Sembra banale ma per negoziare devi mettere in comune una lingua. Dobbiamo riappropriarci del senso, non possiamo vivere di cose, mezzi e strumenti. La città, che è contemporanea al linguaggio e alle istituzioni, produce senso, che non può essere individuale ma solo condiviso da una comunità.
L’illusione della felicità individuale è quella del nostro consumismo, secondo cui esistono valori individuali. Ma non sopravviviamo con valori individuali, sopravviviamo solo con valori condivisi in città che organizzano la nostra convivenza. È qui il nostro destino. La città di oggi con i suoi aspetti strumentali è una specie di droga, bisogna tirarsi fuori e formare delle isole, un’arcipelago di comunità legate al sistema conoscitivo globale ma quasi autosufficienti, e capaci di sopravvivere senza il ricatto dell’energia.