Politica e non violenza
La gestione dello Stato
Come abbiamo osservato nelle riflessioni precedenti, la politica è nata e vive prima e oltre lo Stato moderno; ma, di fatto, dal XV secolo a oggi – almeno in Occidente – essa è anche, e soprattutto, gestione dello Stato. È l’arte di manovrare – per il bene comune o per gli interessi privati di individui e/o di ceti sociali – le istituzioni (parlamento, governo e magistratura in primis).
Lo Stato è violento
Gestire, manovrare lo Stato e le sue articolazioni istituzionali: ma se lo Stato è la macchina che possiede in un determinato territorio «il monopolio della violenza» (Max Weber), non è forse la politica l’arte di esercitare «violenza»? La questione si sposta di poco, stemperandosi senza dissolversi, se si traduce la formula tedesca di Weber con «forza legittima». Lo Stato – anche il più democratico, il più razionale, il meglio governato – funziona solo se è in grado di imporre delle norme, di condizionare i comportamenti dei cittadini, di difendere i confini dai nemici esterni, di imprigionare/processare/condannare/punire i trasgressori delle leggi: e di fare tutto ciò in esclusiva, dunque impedendo che altri soggetti lo facciano in vece sua o in concorrenza con esso (come avviene nel meridione italiano con le cosche mafiose o in America Latina con gli squadroni della morte). Nel dna della politica, in quanto «affare di Stato», è inscritta una logica di tensione e di conflitto che solo una soluzione anarchica sembrerebbe in grado di sradicare realmente.
L’anarchia è impaziente
Dico subito che l’utopia anarchica, nella misura in cui è l’altra faccia dell’autogestione sociale, è un’utopia irrinunciabile: sono convinto che qualsiasi statista, se minimamente onesto con sé stesso, sa «di che lacrime grondi e di che sangue» l’esercizio del potere politico statuale e lavori per rendere il mostro progressivamente più leggero, meno invadente. Meno mostruoso. Tuttavia, nella storia collettiva come nella vita individuale, i tempi sono decisivi. Una condizione ottimale domani potrebbe rivelarsi, nell’oggi, disastrosa. E viceversa. L’anarchico è un figlio della rivoluzione francese che non vuole, meritoriamente, spezzare il trinomio libertà-uguaglianza-fraternità (come l’hanno spezzato i regimi liberali senza uguaglianza, i regimi socialisti senza libertà, i regimi cristiani senza né libertà né uguaglianza): ma è un figlio impaziente. Si illude, o vuole illudersi, che siano maturi i tempi in cui la maggioranza – o addirittura la totalità – dei cittadini sappiano autogestirsi senza né violenza né forze legittima.
Per una riduzione della violenza
Che cosa resta da fare, in concreto, al discepolo convinto della nonviolenza (nel senso attivo e combattivo di Ghandi, Capitini, Martin Luther King, Mandela, Tutu)? Innanzitutto impegnarsi, qui e ora, per la riduzione della violenza. Le cronache registrano ogni giorno esibizioni di violenza da parte delle istituzioni statali (non mi riferisco solo alle forze dell’ordine, ma anche ai mandarini della burocrazia che favoriscono i propri protetti a danno degli ultimi) che sono del tutto superflue. Eccessive. Ingiustificabili.
Ma non basta. Occorre esercitare una critica – teorica e pratica – della violenza che un esame frettoloso giudica irrinunciabile, ineliminabile dalla sfera della politica. La violenza di chi ha i soldi per campagne elettorali spregiudicate, ai danni di candidati limpidi ma sprovvisti di altrettanti mezzi finanziari. La violenza di chi ha i soldi per comprare il voto dei rappresentanti nelle assemblee legislative e deliberative a ogni livello della piramide statale (nazionale, regionale, provinciale, comunale). La violenza di chi ha in mano tali ricchezze, tali fonti di informazione, tali imprese industriali e commerciali, tali strumenti di corruzione, da potersi permettere il lusso di non ottemperare platealmente a quelle norme che non è riuscito a stravolgere già in sede deliberativa. Senza contare la violenza delle associazioni segrete, delle organizzazioni clandestine, delle cosche criminali che possono condizionare la vita sociale sia «a monte» (quando si tratta di produrre decisioni) che «a valle» (quando si tratta di obbedirvi nella quotidianità). So bene che questi criteri hanno il difetto di essere tanto più validi quanto meno dettagliati esemplificativamente (e libri come Conflittualità nonviolenta del mio amico Andrea Cozzo, edito da Mimesis, aiutano a calarsi dal generico al concreto, raccontandoci episodi storici anche recenti di mediazioni postbelliche, di azioni dirette nonviolente, di esperimenti di difesa popolare nonviolenta). In effetti la nonviolenza in politica – o, in altri termini, la «forza della verità» – entra e incide solo quando la fantasia dei militanti si scatena e la routine di gesti logori cede il passo a sperimentazioni innovative e coraggiose.
Augusto Cavadi
docente di storia e filosofia
www.augustocavadi.eu