Perché non possiamo perdere la speranza
La dinamica subdola del potere e la sua contestazione
In Italia la decomposizione del sistema politico berlusconiano era nelle cose ed era attesa quasi con ansia. Tuttavia sappiamo che non si tratta della fine di una stagione o di un itinerario, ma soltanto di uno sviluppo naturale e ancora circoscritto di un sistema più ampio e articolato, ma soprattutto più sottile e distruttivo.
Berlusconi finisce politicamente dentro un’agonia sguaiata e interminabile, ricolma ancora di tensioni, di fango sparso e di colpi bassi, ma soprattutto portatrice di insidie velenose. La sua fine politica è solo una fase acuta e parziale di una disgregazione che ha risvolti più articolati. Il berlusconismo è stato una malattia cancerosa, che ha dilaniato anzitutto la libertà di coscienza e ha introdotto in forme ciniche e volgari un individualismo di ritorno dopo una stagione tumultuosa e vivace, che ha generato una maturazione etica, civile, finanche religiosa, nel nostro Paese, là dove parevano essersi affermati un senso della comunità e una tutela dei diritti della persona su basi di giustizia e di uguaglianza.
Però non siamo cresciuti abbastanza.
Abbiamo sottovalutato che nel nostro Paese si annida da sempre una sottocultura individualista e particolarista, la quale ci spinge a intravedere il proprio bisogno come un interesse imprescindibile e a piegarlo contro l’altro. In fin dei conti non è bastato avere costruito lo Stato sociale per mettere in atto un modello di giustizia né è stato sufficiente avere modernizzato l’impianto della nostra società civile per renderla davvero equilibrata e attenta al bene comune. Dentro di noi si annidava da sempre l’attesa di qualcuno che ci dicesse che quello che era nostro non era di nessun altro e che andava difeso con durezza e cattiveria, fors’anche con scaltrezza e perfino con un pizzico della nostra atavica cialtroneria, ma che solo questo aveva per noi una centralità assoluta: il nostro, il mio.
Silvio Berlusconi ha risposto a queste attese, incarnando un modello pittoresco di egoismo e di individualismo, capace di prosciugare le coscienze e di rendere improduttivo ogni senso del bene. Egli è responsabile diretto di un’azione di svuotamento della coscienza e di privazione del senso della dignità personale e comunitaria della nostra gente. È un disgregatore invisibile, un padrone tenebroso.
Chi spadroneggia da venticinque anni con le proprie televisioni e con la propria influenza mediatico-psicologica raccoglie oggi quello che semina da lunghissimo tempo e può schiacciare i poveri e i semplici, facendoli lottare gli uni contro gli altri, può acquistare uomini e donne come se fossero merce, può intimidire istituzioni plurisecolari, può mostrare la sua frivolezza e la sua volgarità e infine può passare sopra ogni disgusto. Può, voce del verbo potere.
In questa dinamica subdola del potere c’è tutta la debolezza del momento che stiamo vivendo, ma nella sua possibile contestazione c’è la strategia per cominciare faticosamente a ribaltare le sorti di un popolo sofferente, a cui apparteniamo e da cui non possiamo separarci.
Quello che più colpisce è la demotivazione, l’arrendevolezza e il senso di rassegnazione della nostra gente. Si conferma una sensazione di solitudine nel momento in cui emerge un sentimento di ribellione inattesa. Adesso non possiamo non ribellarci e non possiamo non cercare insieme una strada per ridare a noi stessi e a chi vive accanto a noi una speranza.
Non è necessario avere operato acute sintesi intellettuali per capire che premono sul nostro orizzonte almeno tre scelte: affermare la centralità della comunità come valore, attuare ogni forma di legalità, scegliere preferenzialmente gli ultimi della scala sociale, tutelandoli e difendendoli.
È da questa strategia, semplice e impegnativa al tempo stesso, che possiamo cominciare a intraprendere un cammino in salita, oltremodo indispensabile.
Urge abbandonare un’idea della politica, costituita da tatticismi e da vecchie liturgie, da velleitarismi e da parole passate. Si tratta di recuperare un senso della solidarietà tra chi intende vincere la rassegnazione, mettendo al centro di tutto la dignità delle persone, visto che oggi la dignità non interessa più. Tutt’al più conta la rabbia della propria autodifesa.
Le scelte di cambiamento
Invece, oltre ogni apparenza, è ancora possibile operare alcune semplici scelte di cambiamento.
1°) Creare nella propria città forme di aggregazione civile e politica per un progetto di crescita vera e di giustizia, al di là delle parole grandi. Oggi la giustizia è:
azione per la difesa dei diritti dei lavoratori, a partire dallo stesso diritto al lavoro e a una retribuzione dignitosa;
costituzione di un fronte per la liberazione dei ragazzi e dei giovani dalla strozzatura dell’ignoranza e dello sfruttamento;
opzione per l’affermazione della dignità di alcune categorie: anziani, bimbi, stranieri, emarginati;
costruzione di un progetto amministrativo e civile nel piccolo e nell’ordinario.
2°) Ispirare la forza di una riflessione culturale costante. Sicuramente moltissimi tra noi non possono generare processi di grande spessore, visto che tutti quanti abbiamo
occupazioni ordinarie e problemi quotidiani oltre che limitazioni personali evidenti, ma possiamo però esercitare uno stimolo contro la diseducazione di massa e il furto dell’identità personale, contro ogni logica che brucia il pensiero e che impedisce la rivelazione della verità che ciascuno ha il diritto di cercare.
3°) Cercare insistentemente le persone e i progetti che affermano a gran voce il diritto alla dignità umana, accelerando il processo delle scelte, compiendo atti radicali di grande chiarezza. Sfiniscono e comunicano inutilità coloro i quali, ancora oggi, paiono attendere, aspettare, verificare, osservare, guardare con distacco e con disincanto ipocrita. Pur senza compiere inutili azioni temerarie e senza commettere errori di imprudenza, vale la pena spendersi per andare oltre questo grigiore, questa rabbia ingloriosa, questa insicurezza, questa sensazione cupa di oppressione.
4°) Credere nella laicità come valore di convivenza e di solidarietà popolare intorno al valore più grande del bene della persona nella sua comunità.
Si crede nella laicità nel suo senso più originario, come espressione di un’autenticità di popolo, e quindi come condivisione religiosa e non religiosa di tutte le istanze verso il bene, per ciascuno secondo la sua fede e i suoi valori più puri. Si avverte stanchezza davanti alle ideologie a basso prezzo, alle istituzioni politiche fini a sé stesse, ai servilismi interessati, che usano l’appartenenza religiosa come arma o come oggetto utile.
Esiste una laicità che è condivisione di strade tra persone diverse, stimolo a crescere insieme, e, alla fine di tutto, rispetto della diversità nello stesso popolo.
Un modello di speranza condivisa
Nonostante ciò, esiste un modello di speranza condivisa, che non possiamo perdere e a cui dobbiamo attribuire una forma quasi «carnale», storica e visibile di riscatto. È questa una poesia esistenziale che abbandona una poesia astratta per diventare città, famiglia, terra, dimensione concreta di relazioni quotidiane.
Ogni tanto penso a un canto religioso, ascoltato sulle rive dell’Araguaia, fiume duro e difficile del Brasile rurale. «Estamos chegando» – «Stiamo arrivando» – cantava il popolo. L’idea del popolo che avanza compatto verso una liberazione prossima si afferma centrale. Il popolo è il luogo dove si spiega e si matura un senso etico, una fede religiosa, un atto collettivo di dignità, una responsabilità nell’accoglienza. Il popolo è il luogo dove risiede la condivisione del valore della dignità personale.
Purtroppo il meccanismo lento e inesorabile di violazione della dignità dell’uomo è partito anche qui tra noi e basterebbe solo interpretare l’attacco quotidiano alla giustizia sociale e il tentativo di annullamento della coscienza civile. Ci appartiene la libertà di ribellarci dal profondo.
La speranza è ciò che può conferire il senso e la responsabilità di una svolta in tempi duri come questi ed è il nemico più temuto da chi esprime una concezione discriminatoria e arbitraria della vita. Non a caso essa diventa l’obiettivo da distruggere sistematicamente nelle coscienze delle persone. Noi invece crediamo nella speranza come anelito di dignità, come risposta critica e come ragione di giustizia.