Per un’economia civile
«Poi mi dovrai spiegare come mai l’economia, invece di sposarsi con l’etica, si è fidanzata con la matematica». Era fine aprile quando Giuseppe Stoppiglia a Roma mi ha rivolto questa domanda. Una domanda che, credo, accompagna ogni economista quotidianamente. Un dubbio che si forma naturalmente quando un non economista si confronta con il linguaggio e i discorsi dei «professori» e si chiede quanto questo abbia a che fare con ciò che ogni giorno vive, specie in momenti come quelli attuali. L’economia, si dice, non ha forse ora più che mai bisogno di solidarietà ed etica, invece che affidarsi ancora alla fredda razionalità dei numeri? Non è ora di unire nuovamente economia ed etica? Inoltre ci si chiede fino a quando sia possibile, in nome dell’economia, operare politiche sociali non sempre condivisibili sul piano etico. Occorre capire meglio da dove nasce questa contrapposizione e quali possibili vie esistono per sanare questa frattura.
Una visione razionale, matematica
La differenziazione tra economia ed etica non è nuova, ma risale ad almeno due secoli fa, quando l’economia politica è divenuta una disciplina di studio autonoma rispetto all’etica. In quel periodo era molto vivace il dibattito sulla felicità e sulle modalità per ottenerla: troppo spesso relegata in un altrove, senza possibilità di essere assaporata nell’oggi, l’economia politica ha tentato di dare una speranza e una risposta: tramite il benessere materiale e il progresso questa felicità poteva essere perseguita anche nella vita terrena, senza necessariamente rimandarla all’aldilà. Una felicità disponibile per tutti gli uomini, indipendentemente dal credo, una speranza veramente collettiva. Il mezzo per poterla ottenere era identificato con l’uso della razionalità umana. Ecco il perché la diffusione sempre maggiore della matematica come strumento di analisi, come mezzo per trovare razionalmente una risposta ai vari problemi. L’economia politica, però, più si occupava degli scambi economici e della distribuzione del reddito con analisi quantitative, più si allontanava dal porre l’uomo nel proprio contesto sociale. Questa dimenticanza ha acuito la frattura e ha portato a udire, sempre più forti, le critiche a tale approccio. Molte soluzioni sono state ideate per tentare un riequilibrio, il più delle volte però negando e forzando le regole economiche, imponendo visioni etiche.
Mercato e principi di reciprocità
Oggi occorre una soluzione che sintetizzi i due diversi approcci, per poter mantenere i risultati ottenuti in ambito economico e contestualmente reinserire l’economia entro un contesto sociale che le è proprio. Uno spunto lo si potrà trovare indietro nel tempo, nello stesso periodo in cui nacque l’economia politica. In quegli stessi decenni nacque in Italia la cosiddetta economia civile. La differenziava dalla prima un aspetto fondamentale: l’economia civile inseriva all’interno dell’analisi e del discorso economico anche il concetto di reciprocità. Il mercato non come luogo di isolamento dell’individuo per ottenere il maggior benessere personale, ma come luogo in cui la comunità si mette a confronto, in cui con la creazione del valore economico ci si prende cura uno dell’altro. Relazioni conflittuali a volte, ma che rimandano a un interesse comune che altrimenti sarebbe andato perso. Forse avremmo bisogno proprio di questo: di immaginare il mercato come luogo in cui si «produce con» e non «contro» qualcuno. Riappropriarci di questo senso collettivo, senza dover necessariamente contrapporlo al mercato. Da questa base potremmo ricominciare per ricostruire un’economia che possa darci una visione per il futuro e garantirci da una parte benessere e dall’altra che non disgreghi oltre le nostre comunità.