Pensieri senza post
Di là da venire.
Mi guardo attorno, attraverso i vari schermi, e leggo che in tanti si misurano con l’immaginare il mondo, o l’Italia, al termine della crisi. La narrazione del post-virus dunque imperversa, in questa fine marzo a partire dalla cui reclusione sto scrivendo. Quando queste righe saranno su carta, abiteremo già in un qualche segmento di quel post, e allora qualcosa di questi esercizi sarà stato confermato, altro dimenticato, ritrattato.
Mi piacerebbe avere il coraggio di disegnare l’utopia che verrà, percorrere con la mente i sentieri del Giusto e dell’Impossibile, della Bellezza che ancora non esiste. Ma non lo farò, e non solo per incapacità. Più che mai oggi, vorrei trattenermi nel disordine fertile dello scantinato dell’esperienza, quella reale di questi giorni.
Come quando fuori piove.
Lo spazio è il primo a esser messo in discussione. Penso a chi non abbia una stanza tutta per sé, a chi debba passare dalla camera al salotto-cucina, e non possa nascondersi. E debba parlare piano, usando il computer o il telefono, se vuol dire qualcosa di delicato.
Penso agli adesivi per terra nei negozi, alla reazione feroce del giornalaio nel dirmi di stare lontano; penso a chi questa distanza l’avesse già assegnata in dote prima di tutto questo, perché di per sé considerato a torto pericoloso. Distanze invocate, distanze annullate: nelle convivenze i nodi vengono al pettine, le fragilità brillano. La misura della pazienza con i figli va ritarata, le parole dei genitori ripesate. Penso agli psicoterapeuti che ascoltano da lontano, occhi nello schermo, senza sapere bene cosa guardare per incontrare quelli altrui. Allenati a superare le voragini che ciascuno crea in sé stesso, sanno che è identico lo spazio tra due sedie o tra due continenti.
I ragni, le api e le formiche.
Se lo spazio si azzera, il tempo scoppia. Si allunga sino a farsi una linea sottile, una tela di ragno di cui siamo la mosca. Penso a chi programmi di alzarsi comunque alla solita ora, e si mette, come dice Laura Pigozzi, una goccia di profumo solo per sé. Ai bimbi delle ultime classi elementari, che già intendono tutto e sanno che, anche se manca la scuola, non è vacanza, perché vacanza chiama liberazione, salto nel poi, nell’acqua del mare come sui prati delle Dolomiti. Penso all’ansia di dover occupare questo tempo, da parte dei genitori, ma soprattutto di molti insegnanti, cui è stato tolto l’ultimo appiglio alla disciplina, che è la presenza in classe. Alla fatica di reiventarsi, in chi fra loro vuole conservare l’essenziale, che è la relazione, e si getta indaffarato in mille modalità diverse, sondando gli espedienti. L’improvvisa condizione di povertà, rispetto alla massiccia regolarità della scuola normale, si intreccia all’inventiva: penìa e pòros, mancanza e stratagemma, sono i genitori di Eros, secondo la sapienza greca raccontata da Socrate. Il tempo, come sempre, misura l’amore.
Penso però anche a chi era disamorato prima e tale rimane, ancor più disarmato, e allora si danna per mantenere il controllo, si tratti di un docente o di un capoufficio: vorrebbe obbedienti formiche, mirabile insetto collettivo, ben diverso tuttavia dalle api, efficaci ma più anarchiche. Sappiamo la vera dolcezza da che parte sta.
Stanchi, ma felici?
È la prestazione a esser messa in dubbio. È il linguaggio prediletto di questo tempo neoliberista, e fatichiamo a imparare un’altra lingua. Dobbiamo dimostrare che lavoriamo, se abbiamo la fortuna di conservare una mansione e uno stipendio; dobbiamo dimostrare che non ci annoiamo, inondando i social di immagini e riflessioni, copertine di libri e torte appena sfornate; dobbiamo dimostrare che è tutto quasi come prima, trasferendo sulla fibra ottica quel che transitava nelle fibre muscolari, con sessioni ginniche on-line, replicando sullo spettro elettromagnetico quel che passa solo nel 18 vento dello spirito, con meditazioni su Skype o lezioni di catechismo al computer. Mai come oggi potrebbe essere il tempo di rileggere ‘La società della stanchezza’ di Byung-Chul Han.
Limiti e possibilità.
Più di tutte, è la prestazione della cura medica, oggi, a starci a cuore. Scopriamo che esistono dei confini strutturali per il sistema sanitario nazionale, che la redistribuzione della ricchezza non è un’astrazione invocata da vecchi socialisti novecenteschi. Scopriamo che le persone che ci curano sono anch’esse limitate, umane, segnate come i loro volti dai lividi delle mascherine. E molte di loro riscoprono il motivo sotterraneo che le spinse, quella volta, nel bivio fumoso dei vent’anni, a scegliere medicina o scienze infermieristiche: avere a che fare con la morte, sfidarla a scacchi.
L’avevamo relegata nelle serie TV e invece eccola qui, la Signora vestita di nulla e che non ha forma: protende su tutto le dita e tutto che tocca trasforma. Come ci stia trasformando, non lo so ancora.
Giovanni Realdi
insegnante di storia e filosofia,
liceo scientifico statale ‘G. Galilei’
Selvazzano Dentro (PD),
componente la redazione di madrugada