Partecipazione politica
Rispetto alla generazione del ’68, i quarantenni e i ventenni di oggi sembrano abissalmente più lontani dalla partecipazione politica. Per quanto sia erroneo idealizzare il passato, non si può negare che la partecipazione alla vita politica attiva – al seguito delle bandiere di partiti e partitini – fosse incommensurabilmente più diffusa di oggi.
Tuttavia occorre chiedersi se la partecipazione politica passi esclusivamente attraverso le organizzazioni partitiche. Qualora la risposta risultasse negativa, si dovrebbe tenere nel debito conto una nozione più ampia che comprenda, come manifestazione di impegno politico, la militanza in movimenti ambientalisti, associazioni pacifiste, centri sociali autogestiti, scuole di formazione etico-politica, organizzazioni non governative di cooperazione internazionale, coordinamenti antimafia e così via.
A questo formicaio «lillipuziano» bisognerebbe aggiungere il numero di cittadini che, anche in seguito a cocenti delusioni, sperimentate dopo aver preso parte attivamente a forme associative di vario genere, sono arrivati alla conclusione che il modo migliore – il più urgente e più efficace – di fare politica sia presidiare, con competenza e trasparenza, i luoghi del proprio lavoro (specie quando è un lavoro nelle istituzioni, alle dipendenze dello Stato). Penso a quelle migliaia di insegnanti, assistenti sociali, medici, preti, sindacalisti, magistrati, forze dell’ordine, giornalisti… che non hanno tempo – e spesso neppure voglia – di dedicarsi al volontariato sociale e politico perché concentrati, per stipendi in taluni casi risibili, a svolgere i propri compiti professionali senza badare all’orologio e, se necessario, neppure al portafoglio. Questa marea invisibile di gente comune che tiene duro – che «resiste, resiste, resiste» lontano dai riflettori e dai riconoscimenti pubblici – è ciò che spiega l’appararentemente inspiegabile: come mai un Paese fra i più corrotti dell’Occidente, nonostante un ventennio fra i più inquinati della sua storia repubblicana, non sia stato del tutto divorato da parassiti virulenti. Il male, per quanto violento, ha un limite: se divora tutti i beni materiali e immateriali possibili, resta senza alimenti e si autofagocita. Le logge, le cosche, tutte le forme di associazione a delinquere hanno ancora qualcosa da addentare perché, mentre erano impegnate a corrodere, altri hanno coltivato le istituzioni, i servizi, le imprese pulite con il proprio sudore quotidiano e, se inevitabile, con il proprio sangue.
Pur considerando nell’alveo della partecipazione politica attivisti di partito, volontari del sociale e cittadini anonimamente fedeli ai ruoli istituzionali, resta vero che la maggioranza statistica degli italiani, o forse degli occidentali, investe le migliori energie in un’ottica «idiota»: ovviamente non nel senso di poco furba, ingenua, bensì nel senso etimologico (greco) di «particolare», «privato», limitato al proprio ristretto orticello di casa. Le motivazioni soggettive, e soprattutto le modalità oggettive ed effettive, di questa partecipazione – già ora reale, ma insufficiente – vanno dunque potenziate. Rafforzate e ampliate. Enfatizzate.
Un passaggio rilevante in questa lenta marcia dall’isolamento (che non è da confondere con solitudine) alla partecipazione politica (che non è da confondere con la mobilitazione più o meno esibizionistica, più o meno aggressiva, più o meno tempestiva) è costituito dalla demistificazione di alcune illusioni ottiche che ci fanno scambiare per attività politica ciò che, nel migliore dei casi, ne costituisce solo una possibile premessa. Mi riferisco a ciò che significa, in concreto, informazione televisiva e comunicazione telematica. Ovviamente i due fenomeni non vanno identificati. Il primo attinge il piano della sola trasmissione unilaterale: da una parte c’è l’opinion leader che parla, che dibatte con i suoi pari o che monologa rivolto ai telespettatori o ai radioascoltatori; dall’altra ci sono, appunto, spettatori e ascoltatori che, per quanto toccati o coinvolti emotivamente o agitati o indignati, restano comunque strutturalmente incapaci di vere e proprie reazioni. Dopo una trasmissione televisiva si ha la forte sensazione di aver partecipato a un momento politico intenso, ma si è rimasti, oggettivamente ed effettualmente, passivi. Il giorno dopo i corridoi degli uffici, i bar e le sale d’attesa dei dentisti pullulano di commenti al dibattito televisivo della sera precedente: ma questa effervescenza, in quanto tale, lascia la polis così come la trova.
Diverse sono le possibilità che offre internet. Qui è possibile una qualche forma di interattività. Si può ascoltare, leggere, ricevere; ma anche parlare, scrivere, inviare. Tuttavia questaàmodalità interattiva rischia di incrementare più l’illusione della partecipazione politica che la partecipazione stessa. Raccogliere firme, creare gruppi di opinione, organizzare mobilitazioni sul web può avere un senso solo se tutto questo è preparatorio all’agire storico, non sostitutivo. Il virtuale è creativo se propedutico al reale, non se lo relega in una prospettiva lontana e, in ogni caso, facoltativa. Piazze telematiche sempre più affollate non sono un gran guadagno se causa di piazze materiali sempre più deserte. Ancor meno se causa di assemblee, seminari di studio, dibattiti dal vivo sempre più deserti. Non diciamo poi cosa sono se desertificano le urne elettorali…
Il cuore della questione, comunque, è nelle motivazioni all’impegno, o al disimpegno, politico. La storia in questo è maestra: la gente diventa protagonista quando è ricca di idee nuove e povera di pane. Noi veniamo da una lunga stagione di povertà d’idee e di abbondanza di cibo. Per non sappiamo quanto tempo, il cibo ha cominciato a scarseggiare. Sino a quando le idee resteranno scarse assisteremo a ribellismi sterili che sono solo la caricatura della partecipazione politica. Ma se allo stomaco vuoto si abbinerà una mente un po’ più nutrita di progetti, di desideri, di ipotesi di lavoro, forse tornerà per l’intero pianeta una fase di costruzione del nuovo. Perché non ci sono mille modi per dare senso alla vita (o scoprirlo): inventare nuove relazioni sociali, nuovi rapporti economici, nuove modalità di abitare la natura – insomma sperimentare nuove politiche – è uno di questi modi.