Parlo perché tu ci sei
Qualche mese fa un bravo studioso di linguistica, Andrea Moro, ha pubblicato un libriccino con un bel titolo: Parlo dunque sono. Partiamo da qui. Non tanto da un’analisi del libro, quanto piuttosto dall’idea, che possiamo estrapolare brutalmente dal titolo di questo saggio: ciò che siamo ha a che fare da vicino con la dimensione del linguaggio.
Bella scoperta, dirà qualcuno. Il nostro tempo ha conosciuto una fioritura della riflessione sul linguaggio per certi versi mai sperimentata prima con questa forza. Una buona parte della filosofia del XX secolo è stata filosofia del linguaggio, ma anche la poesia, la letteratura in generale, il cinema, le arti figurative e la musica – si pensi a tutte le varie versioni dell’arte astratta o della musica contemporanea, nella loro incessante ricerca di linguaggi diversi al di là del paesaggismo o del sistema tonale -, tutte queste forme espressive hanno prima o poi sbattuto contro la domanda sul linguaggio, tentando mille soluzioni differenti. Provate a pensarci: Lucio Fontana che dipinge tele monocrome e poi le taglia con un rasoio; Andy Wahrol che allestisce una scultura con gli involucri del detersivo Brillo; Maurizio Cattelan che rappresenta Hitler in ginocchio che prega con lo sguardo assorto. Il linguaggio che abbiamo già, quello che ci hanno insegnato, non ci basta. Cerchiamo nuove vie, nuovi codici. Vogliamo dire cose nuove o, se non proprio cose nuove, le stesse cose di sempre in modo diverso. In tutto questo ribollire il linguaggio è allo stesso tempo giudice, imputato e testimone. Il linguaggio è un problema la soluzione del quale va cercata nel linguaggio attraverso un qualche tipo di linguaggio.
La conclusione che potremmo trarne è semplice e a dire il vero non molto originale: il tessuto del mondo in cui viviamo è fatto di linguaggi. E il nostro padroneggiare il linguaggio (o i linguaggi) è parte costitutiva di ciò che siamo. Ancora una volta: parliamo dunque siamo.
Però, se aguzziamo la vista, questo non basta. Non è soltanto che noi siamo fatti di segni, o che il linguaggio ci costituisce in quanto esseri umani. Come ha mostrato una parte della psicoanalisi novecentesca, il linguaggio è anche il luogo in cui esperiamo la frattura originaria che ci contraddistingue. Il linguaggio, al di là di rappresentare il luogo in cui l’umano si realizza, è il punto in cui sperimentiamo il nostro limite, la nostra mancanza. Forza e debolezza sono intrecciate in modo indissolubile. Il poter dire non è mai un poter dire tutto. Possiamo dare i nomi alle cose, possiamo inventare nuovi sistemi di segni e nuovi simboli, ma non pronunceremo mai la parola definitiva, non diremo mai la verità ultima. In questo senso nel linguaggio si manifesta sempre un’assenza, la cicatrice del nostro aver bisogno dell’altro. Nella sua natura relazionale – c’è linguaggio soltanto dove c’è differenza, dove c’è un io e c’è un tu: l’identità perfettamente compresa in sé stessa non ha alcun bisogno di linguaggio perché è tutto già da sempre saputo – il linguaggio è dire e ascoltare, domanda e risposta. Il linguaggio è dialogo, è logos che ha bisogno del due: l’unità semplice, la perfetta identità non basta. Anzi, è sterile. Non serve a niente. E forse in questa necessità dell’altro, nell’insufficienza di ciascuno preso per sé solo, non c’è soltanto la traccia di una mancanza di cui dolersi, ma l’indizio della nostra «perfezione», del nostro essere davvero noi. Solo non una perfezione come invincibilità o come superlativo assoluto.
Abbiamo costruito questo numero di Madrugada come al solito: non vogliamo nemmeno lontanamente provare a dare un quadro completo. Il filo rosso è il linguaggio, gli articoli che leggerete sono tessere di un mosaico che non soltanto non riusciamo a dominare nella sua interezza, ma che continua a cambiare sotto i nostri occhi.
Buona lettura.