Padroni in casa propria
«Il territorio non precede più la carta,
né le sopravvive. […]
Ormai, è la carta che precede il territorio ”
precessione dei simulacri ” e che lo genera».
Jean Baudrillard, Simulacri e impostura
«Si realizza l’ordine democratico solo con la
partecipazione di tutti in quanto persone».
Maria Zambrano, Persona e democrazia
Un popolo, un sovrano
Se Marx nel 1848 poteva dire che sull’Europa s’aggirava lo spettro del comunismo, all’inizio del terzo millennio si tratta piuttosto di sovranismi e populismi. Lo slogan «un popolo, un sovrano» non è certo una novità, essendo un classico per le monarchie assolute e gli stati nazionali dell’età moderna, travolti da mille contese e mille guerre. Ma il tempo di moschettieri e re buoni o cattivi, da romanzi di cappa e spada alla Dumas, nazionalisti fino al midollo, è passato. La sorpresa viene dal successo di «un popolo, un sovrano» nella fase avanzata di democrazie sorte a fatica dalle macerie di nazionalismi moderni e regimi totalitari rossoneri. Non ci sono più re e duci come una volta (sarà poi vero?), non più nazioni spiazzate dalla scena globale (ormai ci siamo), non più dispotismi, autoritarismi, totalitarismi (se proprio vogliamo ridere). Cosa spartisce allora con i propri antenati la versione democratica di «un popolo, un sovrano»? Come si spiega il suo prepotente ritorno mentre le nazioni evaporano come acqua al sole e la democrazia non sembra avere, non sembra vedere, rivali?
Di cose se ne possono dire molte e da diversi punti di vista. Resta però la domanda di fondo:àperché in democrazie così democratiche ritorna in mente il vecchio ritornello «un popolo, un sovrano»? Ora, che «un popolo, un sovrano» rivendichi territori, lingue e culture precise è scontato tanto quanto il sapore amarcord dei canti di montagna. Meno evidente che a ravvivare le braci di nostalgie sovraniste sia questa democrazia fin troppo sicura di sé.
Giù le mani da casa nostra
Non ci vuole molto per capire che qualcosa non funziona nel rapporto tra democrazia e territori. Territori bypassati, bistrattati, tartassati, sfruttati in nome di beni comuni poco trasparenti, di beni superiori e presunti. Territori travolti nei rapporti in revisione tra globale e locale, centri e periferie, unità e regioni. Fatto salvo infiniti ritorni clientelari come bacini di voto, benigne concessioni dall’alto come un tempo i sovrani, riserve non proprio indiane di leggi speciali, cui si prestano volentieri i territori stessi per calcoli pari e contrari. Senza scordarsi delle regolari spruzzate d’egoismi e disponibilità per condire insalate amarognole di benesseri collettivi e futuri.
Lotte in definitiva tra «case comuni» di democrazie poco accoglienti e «padroni in casa propria», risentiti e territoriali, che denunciano tradimenti. Perché la casa comune non si sente davvero propria. Perché nel mare della sovranità democratica nuotano altre sovranità, nuove tirannie. Perché si vive a rischio continuo di estradizione. Tipo Hong Kong, la Cina e i cartelli alzati nei cortei di protesta con «giù le mani da casa nostra», di denuncia con «Gang of tyranny» foto segnaletiche comprese.
Si pensi quel che si vuole, si gridi pure al lupo al lupo. «Padroni in casa propria» mette il dito nella piaga di una democrazia a rischio nel suo essere casa, restituzione democratica ai cittadini di territori e luoghi di vita, fine di ogni padronanza. Per inevitabile contraccolpo, sovranismi e populismi beneficiano di una forza direttamente proporzionale a una democrazia debole e ambigua nei luoghi di vita. Per questo si può calare sul territorio la carta vincente della rappresentanza democratica, ma come svuotandola, dall’interno, a favore d’investiture dirette e immediate, del genere un cuor solo e un’anima sola. Tanto quanto, un tempo, re e territori, sovrani e nazioni, guide carismatiche e popoli. Tutti per uno e uno per tutti, mentre si tenta al contempo il grande slam, denunciando bande di tiranni e invasori.
Piaccia o non piaccia, tra «padroni in casa propria» e crisi di «casa comune» il rapporto è stretto; e lo resta finché si presta il fianco per temere qualcosa di simile a estradizioni o espropri proletari, tipo i palazzi di famiglia trasformati malamente in condomini durante la Rivoluzione d’ottobre (B. Pasternak, Il dottor Å ½ivago). Ma per motivi adesso democratici, liberali, solidali. Senza tuttavia sapere più bene per chi e per che cosa.
Casa comune
«Un popolo, un sovrano» e «padroni in casa propria» incontrano e scontrano il linguaggio della democrazia, innervato di parole che richiamano abitare, costruire, luoghi, territori, sovranità. Solo che vi prendono un senso umano e democratico inequivocabile, che non vale più per tutto e il contrario di tutto, magari sotto copertura democratica. Casa e territorio smettono d’indicare spazi neutri e generici, fisici e geografici, luoghi identitari e identificanti a priori; così come sovranità non significa certo signoria, dominio, possesso, esclusione.
In democrazia la casa è comune perché costruita insieme, il territorio si mappa perché partecipato, la sovranità si qualifica nel collaborare. Casa, territorio, sovranità sono le persone che costruiscono luoghi di vita e di lavoro in dialogo serrato tra partecipare e decidere ” anima stessa della democrazia che mira alla «partecipazione di tutti in quanto persone», che è «la società in cui non solo è permesso, ma è addirittura richiesto essere persona». Altra «definizione» di democrazia non c’è (M. Zambrano, Persona e democrazia, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2000, p. 157). Più che un anonimo e totalitario stare «con» altri, buono per ogni occasione anche malvagia, «casa comune» è il modo originale di essere «tra» altri (cfr. E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, ad es. pp. 41 ss.).
Non esistono persone comuni, non popoli come entità separate dai singoli. Per il semplice fatto che non c’è nessuna «personalità sovraindividuale di questo genere», staccata dalle «persone individuali». Alle parole bisogna fare attenzione. Quando si parla di «anima del popolo», per esempio, andrà fatto tra mille cautele, «cum grano salis» (E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, Città Nuova, Roma 1996, p. 291). Rispetto alle persone, i popoli sono astrazioni talora pericolose, spesso mistificanti alla pari di guide carismatiche e provvidenziali. Astrazioni tuttavia funzionali l’una all’altra, obbligate per forza di cose a esagerare per cercare di farsi ” con la coda di paglia ” più reali della stessa realtà che manca.
Territori / equivoci
«Casa comune» incrocia «un popolo, un sovrano» e «padroni in casa propria» senza fermarsi lì. Superman individuali o collettivi vivono solo nei fumetti. Non ci sono né personalità collettive, né personalità individuali più persona delle persone stesse.
I territori della democrazia sono le persone. Nessun luogo umano esiste prima di essere costruito nel gioco democratico di partecipare e decidere. Tutti i territori democratici sono esperienze cooperative. Democrazia vive e muore ovunque: nei luoghi di vita che sono già territori istituzionali, nelle istituzioni già luoghi di vita. Non gli uni contro gli altri, non gli uni senza gli altri. Non centri, non periferie. Non esclusioni, non confini. Se non quelli di persone che tracciano insieme territori umani in libertà, responsabilità, giustizia. «Casa comune» non è il contrario di «casa propria». «Casa propria» non c’è senza «casa comune».
A garantire democrazia non potranno essere case, territori, sovranità, popoli in quanto tali. Sarà piuttosto democrazia ” ma autentica ” a garantirli. Questa è l’inversione dei sovranismi, questo l’equivoco dei populismi. Non senza complicità democratiche. Per via del divorzio in atto da tempo di un decidere in fuga leaderistica che sminuisce il partecipare a pretesto, rapido consenso, sondaggismo perpetuo; o, per rovescio, un partecipare svagato e disperso che rende incerto il decidere come approdo e vincolo d’impegno.
Anche democrazia può diventare astratta rispetto a persone e luoghi di vita. E si torna da capo.
Democrazie / territori
Una democrazia verticistica tratta i luoghi di vita come periferie dell’impero, dove decidere prevarica il partecipare tenuto come ancella al proprio servizio. Una democrazia localistica stravolge i territori nell’illusione che essere sul posto coincida con decidere e partecipare. Una democrazia virtuale contrappone territori nuovi e virtuali a territori vecchi e reali, per impaludarsi presto nella pianura alluvionata dove partecipare molto e in fretta non sempre decide, come decidere non sempre partecipa. Specchio delle mie brame per ogni raddoppio a oltranza reale/virtuale, sia di divorzi verticistici che d’illusioni localistiche.
Situazioni reali/irreali. Di vertici contro territori (decidere più che partecipare: verticismo democratico), di territori senza territori (sul posto uguale a partecipare e decidere: localismo democratico), di territori contro territori (non sempre partecipare decide, decidere partecipa: virtualismo democratico).
Situazioni reali e irreali di territori sempre presenti e sempre assenti fuori dal ritmo democratico di partecipare e decidere. Strattonati tra verticismi, localismi, virtualismi cosa resta dei territori, che prevale? Probabilmente una democrazia dello spettacolo per territori reali/ virtuali di continuo reinventati in piazze e teatri, altrettanto adatti per democrazie leaderistiche come per populismi e sovranismi. Territori reali/ virtuali dove si decide sempre senza decidere mai (è una recita). Dove si partecipa sempre senza partecipare mai (è battere le mani). Dove tutto è già deciso, già partecipato. Dove è proibito dire di no, come nelle costituzioni totalitarie che suppongono il plebiscito.
Mentre però lo spettacolo democratico va ancora in scena, in onda, sul web, per l’ennesima e stanca replica spacciata come fosse la prima. Ricoprimento perfetto tra politiche dello spettacolo e teatri di strada che si confondono e si distinguono finché «la politica s’identifica con la piazza, e la piazza con la politica» (F. Riva, La democrazia che verrà, Edizioni Lavoro, Roma 2013, p. 77; cfr. Dire di no. Feticci della democrazia, Castelvecchi, Roma 2018, pp. 7 ss.).
Spettacoli / simulacri
Senza dialogo tra partecipare e decidere non ci sono territori, non persone, non comunità, non sovranità. Non democrazia.
Sovranismi e populismi rispondono senza rispondere alla crisi democratica tra partecipare e decidere. Perché territorio non è spettacolo. Perché luogo di vita è una prova sociale di democrazia che rimarrà in memoria come «esperimento di cooperazione» (R. Rorty, Scritti filosofici, I, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 257). Perché nemmeno sul territorio decidere e partecipare sono lo stesso. Perché non c’è nessuna «casa», nessuna «sovranità», senza la realtà di persone libere e responsabili.
In caso contrario tutto esagera mentre svanisce, tutto urla mentre tace. In caso contrario il territorio sparisce, nel senso che non sopravvive ai suoi palcoscenici e alle sue rappresentazioni. Alle carte geografiche che lo precedono e che lo spiazzano. Perché si è andati ben oltre menzogne, simulazioni, astrazioni che, se non altro, era ancora possibile smascherare appellandosi a qualcosa di reale. Quando invece è ormai la mappa, «la carta che precede il territorio ” precessione dei simulacri ” e che lo genera», così che sono «piuttosto i brandelli del territorio che imputridiscono lentamente sull’estensione della carta», i nostri brandelli e non «più quelli dell’impero»: «il deserto del reale stesso» (cfr. J. Baudrillard, Simulacri e impostura. Bestie, beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2008, pp. 59-60). Distinguere tra copia e realtà è impossibile. Sopravvivono solo simulacri.
Preceduti e generati dalle mappe, i territori diventano anch’essi idoli di un niente che ci riguarda, che s’inscena soltanto, che non c’è più, essendoci tuttavia troppo. Tutto irreale, tutto iperreale; e viceversa. Tutto iperreale proprio perché irreale. «Casa comune» come «democrazia». Anche «un popolo, un sovrano», anche «padroni in casa propria».
Senza realtà. Senza persone. Senza liberi e responsabili. Senza partecipare e decidere. Senza comune e senza proprio. Senza casa. Senza istituzioni. Senza territori.