Oscar Romero e il regalo di un bimbo
Il 25 marzo 1980, verso le sei e mezzo del mattino, stavamo ascoltando il Giornale Radio 2, mentre mia madre preparava la colazione e io mi preparavo per andare a scuola. Anni di Brigate Rosse e di fascisti, immersi negli ultimi fuochi di una stagione intensa, contradditoria, piena, affollata di azioni e di reazioni.
Trent’anni. Quanto tempo è passato senza che io capissi davvero… «Hanno appena detto che è stato ucciso un vescovo dalle parti del Sudamerica» – mi ha detto subito mia madre.
«È Oscar Romero» – ho risposto al volo.
Questo scambio, all’alba di una mattina di inizio primavera, è un’istantanea perfetta dell’attesa che regnava nell’aria di una Chiesa ancora profumata dalle passioni giovanili di un’epoca di rinnovamento conciliare, dove il sapore di un’idea rivoluzionaria della fede si sposava felicemente con la forza romantica di una testimonianza quasi «naif», quella di una Chiesa a volte fisicamente lontana, ma anche idealmente prossima, quella di un cristianesimo profetico e amorevolmente abbracciato ai poveri.
Attendevamo tutti la sua esecuzione, che è puntualmente arrivata, la sera del 24 marzo 1980, nella cappella di un ospedale di San Salvador, dove Romero aveva una stanzetta, dopo avere lasciato volontariamente il palazzo arcivescovile in un atto lucido di ripudio di qualsiasi potere umano.
La sua morte era solo una questione di tempo.
Oscar Romero era un uomo di Dio e, come per tutti quelli che vivono solo per Dio, non c’era verso di farlo recedere da una determinazione forte e chiara: quella di spogliarsi delle tentazioni più insidiose e suadenti. E il potere, in un luogo che comunicava potere e morte a ogni passo, immerso in una guerra civile che alla fine avrebbe provocato sessantamila morti (esclusi gli scomparsi) su sette milioni di abitanti, quel potere incombeva minaccioso sulla sua testa di mite e semplice figlio di Dio.
Era solo sull’altare e quella morte, così teatrale e solenne, come quella di San Tommaso Beckett, pareva essere stata scelta dai suoi esecutori quasi con ingenuità. Se si vuole ammazzare qualcuno, non si compie mai l’errore di esaltarne l’evento in un alone di poesia gloriosa. Tutt’al più lo si abbatte nel cuore della notte, al buio, in incognito e senza rumore. Invece questa sua esecuzione è stata l’affermazione di un’interpretazione lineare, pura, limpida e trasparente di una fede irrevocabilmente indirizzata verso il martirio, una fede chiara, come il sole di primavera.
Uomo semplice e schivo
Triste e dura parola il «martirio». Parola ingannevole e abusata, sovente strumentalizzata e svuotata da una retorica che ha cercato altri orizzonti e ha perseguito altri obiettivi, ma che ha sempre dimenticato gli impressionanti occhi semichiusi dei martiri morti, affogati violentemente nel sangue senza che qualcuno potesse dire di loro che «sono spirati serenamente».
Il martirio di Oscar Romero è un interrogativo meraviglioso per la mia Chiesa, che non sa capacitarsi della morte di un suo figlio ucciso non dalla mano di brutali nemici della fede, ma di esseri umani che avevano ricevuto il battesimo e che non hanno mai inteso rinnegarlo. Romero è morto per difendere i poveri e i deboli dalla mano degli iniqui e di chi usava sistematicamente violenza contro di essi. Lo ha fatto soltanto ed esclusivamente per il vangelo, per l’amore di Dio, per un atto di misericordia corporale e spirituale, per la «caritas Christi» che «urget», che preme, che spinge, che pressa, che mette il fuoco nel cuore e nella mente.
Aveva tutte le opportunità per trascorrere una vecchiaia tranquilla, senza esporsi in quel mostruoso campo di battaglia che era diventato il Salvador di quegli anni, ma ha avuto il coraggio di vedere oltre e di stendere il suo sguardo interiore dentro il sudore e il sangue della sua gente.
Mi è sempre piaciuto e mi ha sempre affascinato, da vivo e soprattutto da morto, perché è nato ed è vissuto come placido conservatore e come uomo costantemente alla ricerca delle virtù sapienziali, quelle di Giobbe e del Siracide, quelle dei Proverbi e della stessa Sapienza. Uomo amante dei silenzi e della rettitudine priva di lotte aspre e di grida clamorose, uomo lontano mille miglia da quella concezione bruciante della fede in Dio, rappresentata dalla profezia. In questa sua tranquillità mi rileggo, nella ricerca paradossale di un’analoga protezione di Dio.
Poi un giorno è stato sbalzato sulla scena di una rappresentazione dolorosa e crudele e allora ha visto con i suoi occhi che esiste una Croce senza coperture né mediazioni, una Croce di sangue e di ingiustizie. E ha reagito come fanno tutti i puri di cuore.
«Se Gesù Cristo è questo, se il Vangelo è questo, se la mia fede è questa, allora la mia risposta non potrà che essere questa».
Martire nuovo, profeta diverso
Gli uomini di Dio sono come i bambini. Sono senza interpretazioni, non vedono compromessi né complicazioni e vanno avanti con candore e pulizia, quasi inconsapevoli dei pericoli che corrono. Gli avevano cantato in musica ogni pericolo possibile, avevano cercato di distoglierlo da ogni imprudenza, lo avevano perfino aggredito con malevolenza, ma lui aveva sempre tenacemente risposto con un reiterato e ostinato atto di amore per il suo popolo e, in definitiva, per quel Dio a cui aveva sempre creduto con la semplicità di un bambino che regala una caramella alla mamma per amore. Uno così non farà mai un passo indietro.
Con Oscar Romero siamo stati costretti a rileggere le categorie della profezia e del martirio e abbiamo scoperto linguaggi nuovi e dimensioni inattese. Ci è stato svelato che i profeti non hanno sempre necessariamente la voce ruggente e che i martiri sono tali soprattutto perché, pur sentendo il respiro della morte dietro le spalle, hanno la coscienza sul presente e l’incoscienza sul futuro. Un martire è tale quando non se lo scrive sulla fronte e un profeta è tale quando non ha un pubblico presso il quale esibirsi. Però, alla fine, la profezia rende presente Dio e lo fa parlare, mentre il martirio lo rende credibile.
Tra pudore e vergogna, la Chiesa
La Chiesa oggi pronuncia con enorme difficoltà una parola significativa su di lui e sul suo martirio. Pare che abbia pudore a definirlo come tale e che si vergogni di non averlo riconosciuto fino in fondo. La sua tomba è stata trasferita dalla Cattedrale di San Salvador a un tumulo nascosto, quasi mai aperto alla venerazione popolare, mentre il suo processo di beatificazione e di successiva canonizzazione langue. Romero aveva nemici e, con quella sua ostinazione mite ma incrollabile, ha denudato le ipocrisie di una parte della sua comunità cristiana, la più compromessa con i poteri ingiusti e sanguinari del suo Paese.
Però ora non è importante che Oscar Romero sia ufficialmente elevato agli altari. Importa invece che la sua testimonianza riveli finalmente e definitivamente che muore per il prossimo, che sono i poveri, solo chi ama Dio come quel bambino che regala la caramella alla mamma per amore.
Dalla sua parola eterna ho appreso che la mia pavida distanza dalla condizione degli ultimi, ancorché stemperata da un’opzione culturale per loro, è una debolezza di fede. Se ne avessi di più, avrei il coraggio di avere mani più sporche e piedi più impolverati.
Se, come amava ripetere negli ultimi tempi, «la grandezza di Dio è nel povero che vive», il ragionamento adesso si chiude.
La vita persa è guadagnata, come la caramella regalata alla mamma per amore.