Opinione pubblica e consenso sociale
La democrazia e le sue ambiguità
Tra i regali che ci ha elargito l’Illuminismo va annoverata la nascita di un’opinione pubblica di dimensioni nazionali e anche più ampie. E, come tutti i regali dell’Illuminismo, anche questo è risultato ambivalente: grandemente prezioso, ma altrettanto insidioso. Non è facile immaginare la preziosità della nuova categoria sociologica: bisognerebbe immaginare quale fosse la situazione anteriore alle enciclopedie in dispense, alle gazzette settimanali e ai libri economici. Basti porre mente al fatto che la stragrande maggioranza della popolazione nasceva, cresceva e moriva senza sapere chi fosse l’imperatore regnante sulle proprie terre: altro che condizionare i programmi e i metodi dei governi, confinati nei bunker dorati di Versailles o dello Schoenbrunn! Con la diffusione della stampa si gettano le basi della democrazia politica che farà le sue prime prove nel processo di formazione degli Stati Uniti d’America e nell’abbattimento dell’Ancien Régime grazie alla rivoluzione in Francia.
La democrazia, debitrice della propria origine verso un’opinione pubblica sempre più informata e avvertita, ne resta inevitabilmente condizionata. Gli umori della base determinano la scelta dei rappresentanti, ma anche le decisioni politiche fra un’elezione e l’altra. Se ci riflettiamo con serena oggettività, questo metodo non sarebbe il peggiore fra i tanti sperimentati nella storia. Che cosa non convince in questo sistema? Diciamolo in sintesi.
Prima di tutto: il criterio della quantità sostituisce totalmente ogni valutazione qualitativa. Il voto di dieci stupidi ignoranti pesa esattamente quanto il voto di dieci premi Nobel.
Secondariamente: chi arriva al governo, si preoccupa poco di ciò che ritiene buono e giusto e molto del consenso sociale.
Pregi e rischi dei sondaggi d’opinione
È in questo contesto democratico, con i suoi pregi e i suoi rischi, che va considerato il metodo dei sondaggi d’opinione. L’aspetto indubitabilmente positivo è che, in linea di principio, l’opinione pubblica conta. Che cosa sono le elezioni periodiche o i referendum saltuari se non sondaggi ufficiali con effetti deliberativi e non meramente consultivi? Gli inconvenienti si registrano, invece, se dal punto di vista concettuale ci spostiamo a ciò che avviene sul piano dei fatti. In pratica, infatti, assistiamo a un circolo (vizioso) di condizionamento reciproco: chi ha le redini del potere politico tenta di modificare i gusti della base; nella misura in cui ci riesce persevera nelle sue scelte programmatiche e, nella misura in cui non ci riesce,àadatta le proprie scelte programmatiche agli umori della base. In questa dialettica circolare il consenso sociale, da test di verifica della validità di un programma di governo, diventa fine in sé: un Moloch cui sacrificare la verità, le indicazioni scientifiche, il buon senso. Insomma: la differenza fra l’offerta politica e la domanda politica si accorcia a condizione che governanti e governati si accordino al ribasso, si scambino il peggio di sé.
È evidente che l’uso di una terminologia economica («offerta», «domanda»…) non sia casuale. Le tre rivoluzioni industriali dall’inizio dell’Ottocento ai nostri giorni, con il supporto della nuova regina delle scienze – la sociologia -, hanno trasformato l’agorà politica in mercato della politica: è importante proporre al pubblico un pacchetto ideologicostrategico valido, ma ancora di più è mettere in vendita un pacchetto che sappia presentarsi come appetibile. Nessuna meraviglia dunque che le ricerche di mercato, mediante i sondaggi d’opinione, si estendano dalle merci materiali alle merci immateriali e che l’offerta delle prime e delle seconde si adatti ai gusti della maggioranza, almeno nella misura in cui non riesce a pilotarli del tutto. È sin troppo ovvio che ogni acquiescenza demagogica agli umori delle masse è dettata non da stima e affetto per il «senso comune», bensì da volontà di manipolazione: «assecondare gli altri, recitare e governare la loro follia, la loro idolatria specifica è l’unico modo per piegarli al nostro fine» (Franco Cassano).
Dittatura illuminata o democrazia cognitiva
Come evitare che governanti e governati, in una sorta di perverso gioco di neuroni-specchio, si adattino alle richiesteàmeno nobili e meno lungimiranti della controparte? Al di là delle sottigliezze analitiche dei politologi, le soluzioni principali sono due. Sostituire la democrazia con una dittatura (più o meno illuminata) oppure curare la democrazia con iniezioni di consapevolezza critica. Azzerare, o per lo meno ridurre, lo spread fra quantità e qualità dei voti «democratizzando la conoscenza» (come ama esprimersi Edgar Morin): che significa, tra l’altro, attivarsi in tutte le modalità affinché ogni elettore abbia la possibilità (e il dovere morale) di ricevere, insieme al diritto di esprimere il proprio parere, il bagaglio culturale minimo per orientarsi fra le diverse proposte ideologiche e programmatiche. Che senso ha dare a tutti l’arma del voto senza accompagnarla con un libretto d’istruzioni che faccia capire come e soprattutto a che scopo usarla? Senza questa distribuzione dei saperi, la democrazia si riduce a una serie di parate plebiscitarie manovrate da pochi registi occulti. Diventa un’oligarchia mascherata: dunque peggiore di qualsiasi aristocrazia manifesta. Cittadini un po’ meno disinformati sui propri reali interessi (che, in quanto reali, non si identificano tout court con gli immediati interessi economici) potrebbero essere «sondati» (in maniera informale o, come succede in occasione delle elezioni, in maniera formale) con un rischio ridotto di scambiare lucciole per lanterne. Infatti l’elettore consapevole o esprime con convinzione una propria opinione (se si tratta di una questione in cui sa di aver competenza) o, con altrettanta convinzione, si affida a rappresentanti che egli sceglie perché ritiene più competenti di sé.