Omaggio alla gioia di vivere

di Realdi Giovanni

Di fronte a un bambino, per poter comunicare, dobbiamo piegare le ginocchia. Dobbiamo chinarci, facendo un movimento dall’alto verso il basso, dall’astrazione alle viscere. La nostra stabilità adulta vacilla, anche se le gambe sono ancora buone; il mondo assume visuale diversa, prospettive cui non eravamo abituati. Se vogliamo prendere posizione laggiù, dobbiamo sedere: rinunciare per un po’ all’andare, complicare la via di fuga, tacitare l’ansia. E stare.

Chiunque si prenda cura di un bimbo, di una bimba, percepisce come le nostre città non siano a loro misura. Metafora dell’uomo d’oggi, le città sembrano scatole utili a produrre, a fare, a usare il tempo al fine di guadagno. Non puoi fermarti, se non in recinti prestabiliti: parchigioco per i piccoli, bar e slot-machine per i grandi.

A un anno dalla scomparsa di Mario Lodi, a più di venti da quella di Loris Malaguzzi, Madrugada torna a gettare uno sguardo sulla scuola. E per farlo, seguendo proprio le intuizioni del maestro nato a Piadena, deve ricordare che la scuola può essere luogo educativo se rinuncia a essere il luogo della formazione. Già, perché i bambini arrivano a scuola già formati dall’ambiente che li ha accolti (famiglie, quartieri, paesi). La scuola deve quindi chinarsi – inchinarsi – per riconoscere che esiste un’enorme ricchezza che non dipende da lei, che non è tale perché sia lei a certificarla.

Quel che accomuna Lodi e Malaguzzi – e probabilmente ogni maestro e maestra in senso pieno – è il rispetto per l’intelligenza di cui il bambino è portatore sano. Il bambino, dice Malaguzzi, è un «ricercatore nativo» e il compito dell’adulto è predisporre un ambiente adatto a rilanciare questa indagine naturale, non a soffocarla. Da qui questo monografico, nel quale i due pedagogisti, i due maestri, vengono descritti non per una celebrazione ipocrita, quanto per far memoria e dare slancio a esperienze efficaci e non ancora concluse. Come in Jean Giono, essi hanno piantato querce: a noi il compito di prendercene cura.

Ipocrisia: parlare oggi di bambini significa farne una buona scorta. Siamo tutti pronti a sottoscrivere il fatto che essi costituiscono «il futuro della società», eppure nulla, nelle nostre politiche – macro o micro – sembra essere progettato, organizzato, immaginato sulla base di questa convinzione. Ci stiamo sottraendo al dover decidere non solo «come», ma perfino «se», con le parole di Goffredo Fofi (nell’omonimo testo, La Meridana, 2012), salvare gli innocenti.

Lodi, Malaguzzi sono solo due nomi (penso per esempio a Carla Melazzini, la cui esperienza è descritta in Insegnare al principe di Danimarca, Sellerio 2011) tra quelli che la retorica di regime chiama poi, quando fa comodo, «eroi della scuola». Sono migliaia, nascosti nel quotidiano, coloro che cercano di dar senso alle istituzioni preposte all’educazione/istruzione/formazione, nella consapevolezza che un’istituzione ha il primo nemico in sé medesima, perché tende a portare avanti una struttura, non le relazioni vive per le quali venne creata.

Conservare la vita in un’istituzione, evitare che diventi un reliquario, un museo di animali impagliati. La rete di Cooperazione Educativa C’è speranza se accade @, il «Reggio-approach» narrato (anche) al Kinder- und Jugendmuseum di Monaco di Baviera sono due esempi non di accanimento terapeutico, ma di utopie praticate, di sogni in carne e ossa. Vengono in mente la Pennabilli di Tonino Guerra, Terraviva di Andrea Gandini a Ferrara oppure ancora le parole di Rubem Alves, compianto amico di Macondo: ««Che infanzia avremmo avuto, se ci avessero permesso di vivere come desideravamo!» (Bergson). Non basta che i poveri abbiano pane. Bisogna che il pane sia mangiato con gioia, nei giardini. Non basta che le porte delle prigioni siano aperte. Bisogna che ci sia musica nelle strade. Non basta che ci sia la scuola. Bisogna che a scuola si insegni alle bambine e ai bambini il linguaggio dell’amore. Così esse/i scopriranno la gioia di vivere che noi abbiamo perduto».