Oltre i recinti del giusto e dell’ingiusto
In un campo senza sigilli ti incontrerò
«La nostra meta non è mai un luogo,
piuttosto un nuovo modo
di vedere le cose».
Henry Miller
«Dio non è un oggetto,
non è un’identità,
Dio è una suprema passione».
Leonardo Boff
Storie di donne
Una ragazza graziosa, con grandi occhi neri, dalle sopracciglia bizzarramente sfoltite, un viso pallido dall’ovale perfetto, entrò nella carrozza del treno che mi stava portando a casa. Si rannicchiò subito nell’ultimo sedile dello scompartimento, vicino al finestrino e cominciò a piangere piano. Poi iniziò a parlare al telefono, alzando spesso la voce. Alla fine, desolata, riprese a piangere.
Chi la trattava tanto male al telefono? Chi sussurrava parole dure e misteriose al suo orecchio da generare quell’ansia dolorosa? Ogni tanto si soffiava rumorosamente il naso. Arrivando al termine della corsa, nella quieta stazione notturna, cercava di ricomporsi, ma la tradivano gli occhi cerchiati di rosso, febbrili. Non riuscii ad andarle vicino per timore della sua reazione alla mia «intrusione», come si dice oggi. Per una volta fui timido e poi era tardi, faceva freddo, avevo fretta. È così facile passare oltre, quando si sfiora un’infelicità!
Certamente non volevo diventare una spalla su cui piangere o ascoltare una nuova storia di tristezza e di fallimento amoroso. Non volevo rattristarmi. Ha vinto la stanchezza o il sospetto che fosse una ragazza che piangeva facilmente? Non lo saprò mai e questo ora mi fa male al cuore. Le nostre strade si erano incrociate e non saprò mai perché.
Monica mi manda un ritaglio di giornale che riporta un racconto, forse una leggenda, raccolto e ascoltato tra gli operai del porto di Livorno. Così bello che mi commuove come un fioretto di San Francesco. È la storia di una ragazza, orfana di madre, che si finge maschio per poter vivere in convento vicino al padre che si è fatto frate. Alla morte del padre viene accusata da una donna di facili costumi di aver concepito con lei un bambino, deposto neonato nel convento. Scacciata dalla comunità, la povera «frate Cherubino» alleva amorosamente la creatura e solo quando muore viene scoperta la sua identità e la sua innocenza.
La signora bionda, nella lavanderia di via Mascarella, lavora tutti i giorni fino a tarda notte. Quando tutti i negozi sono chiusi e la gente guarda la televisione, petulante compagna della cena, la si vede ancora instancabile all’asse da stiro.
La sua figura, leggera e danzante, scivola lungo il marciapiede e scompare oltre la massa dei capelli sciolti che le danzano sulle spalle. Siamo andati assieme, per scaldarci dal freddo, a prendere un punch. Mi dà del tu, mi legge la mano, mi racconta tutta la sua storia. L’infanzia tragica, la madre in ospedale, il padre colpito da un incidente sul lavoro, tre sorelle e poi un uomo, una bambina, ormai cresciuta. Il sonno scarso, la stanchezza, i pasti saltati regolarmente. È sempre sola. «Non è giusto, Giuseppe, far soffrire un’altra persona. Non è giusto che un uomo si senta in diritto di agire così, di far soffrire in questo modo. Non è giusto». Sola, con la sua bambina e il dannato lavoro tutto il giorno, ma non se ne lamenta. Parla di altre storie, di altre vicende, di altre donne.
Storie di donne, silenzi di donne, calvari di donne, ognuna murata nella sua pena, ognuna schiacciata sotto la sua croce, senza Veronica e senza Cireneo. Tante storie raccolte e tante taciute. Tutte diverse e tutte uguali. Fanno grido, grido immane che nessuno ode, nessuno ascolta, neppure le altre donne, zitte per paura. Sanno di essere, se isolate, sempre le più deboli. E il più debole ha sempre torto.
Donne violentate, donne sfruttate, donne umiliate, donne defraudate, donne maltrattate, donne abbandonate, donne tradite, donne usate, donne instupidite. Ogni donna è nostra sorella, ogni donna è nostra madre. Se non si rispetta in ogni donna l’immagine della madre, di propria madre, l’identità altra che c’è in lei, come potrà l’uomo rispettare sé stesso?
Repulsione e protesta
I giorni scorrono lenti in questa Italia, confusa e irriconoscibile. Giorni oscuri e carichi d’insensatezza, dove si sta facendo strada un razzismo tanto più crudele e perverso, quanto più ferocemente dissimulato sotto l’apparenza della parità dei sessi. È il razzismo contro la donna, perpetuato dai mass- media e dalle stesse istituzioni che più dovrebbero combatterlo, compresa la Chiesa cattolica e tutte le altre Chiese cristiane.
Trovo inspiegabile questo sentimento di paura e di omertà, di insensibilità diffusa, d’indifferenza morale o di dissoluzione di ogni criterio etico, che impedisce un sussulto comune e condiviso di repulsione e di protesta, di fronte a tanto ciarpame stantio, fatto di sessismo maniacale, diàqualunquismo, di ignoranza dei fondamenti della storia e della democrazia (avrà mai letto la Costituzione il «nostro» caimano?), che è stato rimacinato dalla società dello spettacolo, riplasmato nel crogiolo del populismo moderno e del neoliberismo.
Non è sconcertante l’assenza di un sentimento collettivo d’indignazione, non solo da parte delle donne, ma anche da parte degli uomini, davanti a un mediocre dongiovanni di provincia, che per rimuovere il dubbio atroce dell’impotenza, per placare l’ansia da prestazione, per scacciare il fantasma della decadenza e della morte, non entra dentro un casino, ma costruisce un complesso sistema di potere/ mercimonio in cui tutto si tiene: la politica, gli affari, il consenso elettorale, le alleanze, il sistema di corruzione, le tangenti, i corpi femminili, lo sfogo sesso-narcisistico? Tutto si tiene poiché tutto è ridotto a merce/spettacolo, a sua volta manipolata grazie all’impero mediatico di sua proprietà e pure all’acquiescenza dei media non suoi.
Il fenomeno Berlusconi, si sa, è squisitamente nostrano, è il parto di quell’Italia, mai affrancatasi del tutto dall’eredità del fascismo e del qualunquismo, se non per brevi stagioni felici. Un’Italia che, se pensa di poter rispondere alle sfide complesse della globalizzazione e della pluralità culturale con gli espedienti vetusti dell’imbroglio e del raggiro, senso civico debole, futilità etica e intellettuale, si condannerà certamente a un presente senza profondità di memoria e di futuro e a una diffusa e inquietante sregolatezza pulsionale.
Se il modello offerto dalla società degli adulti è oggi un impasto di egoismo opportunista e di cinismo morale, se il mondo dei grandi non mostra di credere a quegli ideali che a parole propone, è abbastanza inevitabile che le nuove generazioni finiscano col non aver fiducia in sé stesse e nel mondo che le circonda. I comportamenti dei giovani, si sa, non sono soltanto il frutto di naturali inclinazioni, ma anche di una profonda spinta imitativa che porta a seguire i modelli di vita e di comportamento degli adulti e della società circostante.
Scomparso il luogo della comunità educante
Le giovani generazioni vivono un sentimento di inadeguatezza, con la paura di essere deluse. Parlano poco delle loro attese, anzi temono i discorsi, sottostimando quello che vivono realmente. Portano sul volto i segni di una ricerca sofferta di ragioni per vivere, di motivazioni per uscire dall’apatia e dall’indifferenza, dall’assenza di speranza, dall’assenza del «prossimo», dall’autarchia allucinata in cui ciascuno di noi compie il rito di vivere normalmente.
Non abitano più, perché scomparso, il luogo dove formare e sviluppare quella capacità di entrare in rapporto con i fatti, con gli avvenimenti del mondo esterno, con le persone che abitano le varie scene di fronte alle quali si trovano, per collocarle in un contesto significativo che ne faccia cogliere, insieme, la particolarità e l’universalità. La capacità a vivere è, infatti, proprio questa attitudine, specificamente umana, di intravedere nel particolare le trame dell’universale e, reciprocamente, nell’universale lo spazio insopprimibile delle particolarità che fanno la storia di ciascuno. Il modo con cui stiamo insieme, oggi, ha distrutto le relazioni fra persone che si guardano in faccia e si interrogano con gli occhi e le parole. L’ipermercato, questo immenso trionfo della mercificazione assoluta, dove non c’è spazio per il segreto del desiderio, di qualcosa che sfugga al possesso, ci ha abituati al godimento immediato. Siamo tutti anoressici o bulimici: ci ingozziamo per vomitare e vomitiamo per ingozzarci di nuovo.
Con il trionfo dell’esteriorità è stata uccisa la vita interiore, quel sostare con sé stessi, interrogarci sul senso di quello che facciamo; per questo abbiamo prodotto una spinta irrazionale a seguire l’obiettivo inconsapevole della grande manipolazione dell’immaginario sociale.
La festa di Macondo
La scelta del tema Fuori dai recinti del giusto e dell’ingiusto, c’è un campo, là io ti incontrerò, per la festa di Macondo (sabato 4 e domenica 5 giugno 2011), vorrebbe essere un invito a riflettere assieme su questa emergenza.
Viviamo in una società adulta (non solo in Italia), che non è riuscita a crescere, anzi ha addirittura espropriato lo spazio della speranza e del futuro alle nuove generazioni. Il giudizio di Pietro Barcellona e il suo invito a reagire è ancora più duro e deciso: «Il nichilismo degli adulti è lo strumento perverso con il quale essi cercano di giustificare il fallimento e di rendere complici anche i giovani della catastrofe morale che attraversa il cosiddetto mondo degli adulti. L’assenza di un rapporto con il futuro, che è il massimo dell’alterità e il vivere alla giornata come stiamo facendo, sono la negazione della vocazione umana a coltivare la speranza di un avvenire diverso. Siamo muti di fronte al futuro, anzi non vogliamo neppure pensarci».
Invecchiando, mi accorgo che la vista morale non cala, anzi si acuisce. Si vede di più sia il bene che il male. Il male, però, ferisce e offende molto più di prima. Mai lo avevo visto così profondo e vasto. Se mancano le difese, il male porta disperazione.
Il bene non è più visibile in superficie, come sembrava fosse in passato. Si trova nel cuore vivo del mondo, sotto ogni ingombro di male e dal suo nascondimento manda ogni tanto qualche raggio di luce, sufficiente per piangere di gioia e nutrirci per altri giorni.
Politici, economisti: brancolano con finta sicurezza. Se lo dici ti canzonano come svanito; certamente non comprendi tutte le novità, ma ora vedi meglio tutto dall’alto e da dentro. Cerchi di aggiornarti, di seguire le analisi, ma le trovi sempre un passo indietro rispetto a ciò che intuisci. Ti diranno che pretendi di sapere cosa è bene e cosa è male e che queste sono categorie astratte: è un argomento mannaia che vince sempre. Allora parli sempre di meno (quando non perdi la pazienza). In realtà, lo sappiamo tutti dove è bene e dove è male. Lo sanno anche loro, ma ci pensano meno e hanno meno materiale di conoscenza e di riflessione per distinguerli nelle zone della realtà dove si confondono. La vicinanza alle cose li disorienta.
Arrivato alla fine, resto con l’impazienza di una risposta. Un’indicazione di luce mi viene dalle parole di Edgar Morin. «Se fossi guidato solo dalla ragione, direi che il mondo va verso la catastrofe, ma nella storia dell’umanità esiste l’imprevisto, il fatto inatteso che cambia il corso delle cose».