Objects in the mirror are closer than they appear

di Realdi Giovanni

Gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto sembri

«Poi torni, e ti trovi con gli amici di prima, e senti che fai fatica a fare gli stessi discorsi di prima. Fai fatica a parlare di… banalità». Quei tre precisi punti di sospensione, nella loro leggera e rispettosa aria perplessa, mi sono apparsi una porta spalancata sul modo di vedere le cose di questa persona. Ha cinquant’anni e l’aspetto leggermente scombinato dello scienziato: è il mio medico degli occhi. Lo chiamo così, perché le parole e la prassi di oculisti e ottici si sono confuse negli ultimi tempi e la visita di controllo accade spesso dentro spazi commerciali. Nulla contro queste scorciatoie, ma non è quello che incontro quando, una volta l’anno, varco la porta del suo studio.

Prendersi cura della vista degli altri. Se ogni studio e azione clinica, pur nella contemporanea esplosione delle specializzazioni e micro-competenze, sono in qualche modo un servizio alla persona, questa capacità conserva ai miei occhi un fascino particolare. Riguardo con curiosità la mia «scheda-paziente» e scopro che la data della prima visita è il 1988 e mi accorgo che rimane nella memoria quella sensazione lancinante di quando ho inforcato gli occhiali per la prima volta: ciò che ero ormai abituato a chiamare mondo aveva cambiato sembianza, le distanze prima macchiate diventavano precise, e tutto quello che vedevo distrattamente lontano era invece ora davvero lontano, ora più vicino. La soglia dell’adolescenza la stavo superando con la reale possibilità di cogliere le sfumature.

E invece per molti mesi, meccanicamente, mi accorgevo di essere senza occhiali arrivato quasi a scuola. Troppo tardi per tornare indietro: l’unica era sperare che non scrivessero troppo alla lavagna; oppure fare come prima, ignorare i segni bianchi nel rettangolo nero. Più forte della curiosità per i particolari, era l’abitudine al mondo del miope: un ammucchiarsi costante di giorni aveva creato quella patina ambigua, nella quale ero bene accasato. E la protesi – estranea come un apparecchio per i denti – era un alieno a cui dover dedicare del tempo mentale, per ricordarlo ogni mattina. Da un lato l’adattamento, dall’altro l’intuizione: il mio medico degli occhi sente la distanza bruciante tra quanto vede nei suoi viaggi africani di cura e quanto sente al ritorno, nel corso di cene amiche, ospitate dal placido impaurito nord-est. Laggiù il resoconto dell’essenziale, qui l’ammiccante commento a proposito di un ottimo vino scovato chi sa dove. Laggiù la sete, qui il boccato. Viene in mente Marco Aurelio: che cosa è il fine Falerno se non succo di uva spremuto?

Inforcare

Quando si parla di vista, si parla di un bene, un dono, di una luce. Ma lo stratificarsi retorico del nostro immaginario ci costringe quasi deterministicamente ad accettare il diktat di Saint Exupéry, suo malgrado, per cui «l’essenziale è invisibile agli occhi». Chi mai potrebbe negare questa verità autoevidente? Pronipotini del Platone di Bignami, nipoti di un cattolicesimo da quiz televisivo, abbiamo collaborato senza timore al parricidio dei terribili avi e scuotiamo il capo di fronte alla «logica dell’apparenza», prontamente scandalizzati alla comanda, perché ciò che conta, come si dice, lo portiamo nel cuore. La contrapposizione essere/apparire, essere/avere, necessario/superfluo, verità/menzogna, opportuno/trasgressivo, critico/massificato è invece sempre e comunque il trionfo dell’apparenza: vediamo quel che vogliamo vedere e poi lo chiamiamo invisibile, perché questo ci fa comodo, e lo chiamiamo essenziale. Il relativismo fa paura per questo: perché potrebbe esserci qualcuno la cui morale è più convincente della tua.

Ascolto con stupore l’applauso che la metà degli astanti – studenti del quinquennio del liceo – rivolge, sollecitato da una trasposizione teatrale di un processo in cui essa è imputata, alla pena di morte. Più di un centinaio di ragazzi dai quattordici ai diciotto anni approva la pena capitale, quella che De Gregori chiama con la precisione del poeta, «risultato senza soluzione». Il mio stupore non nasce dall’approvazione, quanto dalla platealità della presa di posizione. L’assemblea di istituto non è riuscita – secondo alcuni – perché «mancava un relatore a favore della pena di morte» e quindi non c’è stato dibattito. Mi sto già muovendo per cercare negli ambienti di estrema destra, magari qualche texano studente in Italia è disposto a prestarsi alla discussione…

I ragazzi sono spugne, e non parlo degli spritz serali. Sono capaci di assorbire il meglio e il peggio di quanto ci circonda e rimandarlo fuori intatto, pronto da osservare. E qui cerco di sistemare gli occhiali sul naso e guardare con attenzione. Che cosa vedo? Rabbia e paura. Lo studioso di diritto internazionale, esperto rodato della Comunità di Sant’Egidio, ha fatto un solo errore: pretendere di parlare alla testa dei presenti, senza passare per il loro cuore, le loro viscere, per farli esprimere. Le sue motivazioni razionali sono inattaccabili, i suoi dati estremamente evidenti, lampanti, ma inutili.

Ma la forza reattiva dei ragazzi non deve patire biasimi: è la medesima che impiegano quando avvertono l’ingiustizia e la rimandano al mittente moltiplicata in decibel.

Con gli occhi della mente

Il metamondo dell’apparenza impone tra i suoi obiettivi plastificati anche la capacità critica. Specie nei confronti delle giovani generazioni, molti adulti si sentono in dovere di spingere a ragionare, di sollecitare divergenze, di andare oltre l’ovvio. Una visione miope suggerisce, quindi, come priorità, l’attivazione del ragionamento. Invece il punto sta altrove: non si tratta di imparare a pensare, ma di imparare a cosa pensare. Il medesimo mondo sedicente adulto dà dimostrazione – invitando a pensare – di non pensare affatto, o meglio di non dedicare pensiero a ciò che può essere pensato. Inforcando gli occhiali ne vedo la causa: l’ansia. Di migliorare, di salvare, di cambiare. È quella che viene comunicata in questi inviti maldestri, e a essa non si può che ottenere una risposta ansiosa implicita: se mi stai addosso con tutti questi problemi, io cerco di starmene lontano. L’animale umano funziona così, al pari dei suoi simili non umani, stando lontano dal dolore.

La possibilità di scegliere che cosa pensare non è una cosa ovvia e gli oggetti che compaiono, non si sa come, tra le nostre meningi, nascono da un meccanismo cerebrale naturale, ma non per questo debbono essere sempre presi sul serio. Ci sono, ma da che cosa sono prodotti? Che tutto sia uno schifo o che siamo circondati da gente maleducata, che ci siano in giro troppi extracomunitari o che non ci sia più la mezza stagione, che i giovani sono o che la cassiera del supermercato è lenta…

«Guardate che se scegliete di pensarla così non c’è niente di male, lo facciamo in tanti, solo che pensarla così diventa talmente facile e automatico che non richiede una scelta. Pensarla così è la mia modalità predefinita naturale. È il modo automatico e inconsapevole di affrontare parti noiose, frustranti e caotiche della mia vita da adulto quando agisco in base alla convinzione automatica che sono io il centro del mondo, e che sono le mie sensazioni e i miei bisogni immediati a stabilire l’ordine di importanza delle cose (…). Se siete automaticamente certi di sapere che cosa sia la realtà e chi e che cosa siano davvero importanti – se volete operare in modalità predefinita – allora anche voi, come me, probabilmente trascurerete tutte le eventualità che non siano inutili o fastidiose. Ma se avrete davvero imparato a prestare attenzione, allora saprete che le alternative non mancano. Avrete davvero la facoltà di affrontare una situazione caotica, chiassosa, lenta, iperconsumistica, trovandola non solo significativa ma sacra, incendiata dalla stessa forza che ha acceso le stelle: compassione, amore, l’unità sottesa a tutte le cose. Misticherie non necessariamente vere. L’unica cosa Vera con la V maiuscola è che riuscirete a decidere come cercare di vederla» (David Foster Wallace, Questa è l’acqua).