Nord-Sud: dallo sviluppo alla trasformazione sociale
Un falso sviluppo e la perdita di molte speranze
Era il 20 gennaio 1949 quando il presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman, pronunciò il discorso inaugurale della sua presidenza, noto come il «discorso dei quattro punti». Truman promise di appoggiare le Nazioni Unite, sostenere le politiche per la rinascita dell’economia mondiale, rafforzare la coesione delle nazioni «amanti della libertà» contro ogni nuovo tentativo di aggressione e – ciò che da un punto di vista africano è più interessante – di «intraprendere un nuovo audace programma per rendere disponibili i benefici dei nostri progressi scientifici e del progresso industriale per il miglioramento e la crescita delle aree sottosviluppate».
Era l’inizio, perlomeno l’inizio formale, della corsa allo sviluppo di coloro, individui, popoli e nazioni, che erano considerati, agli occhi occidentali, sottosviluppati. Da allora a oggi sono successe tante cose, prima fra tutte la conquista dell’indipendenza politica dei Paesi africani negli anni ’60. La fine del colonialismo, spesso frutto di lotte sanguinose, portò una ventata di speranza in tutto il continente. Sfortunatamente (ma non era certo questione di sfortuna), entro la fine degli anni ’70 quasi tutti i Paesi africani erano entrati in un regime di partito unico, spesso militare, demolendo, o quasi, le speranze democratiche e popolari che erano state l’anima della lotta anticoloniale.
Ma fu soprattutto a livello sociale ed economico che si comprese come la fine del colonialismo fosse di fatto un passaggio necessario non per cambiare le cose, ma per mantenerle esattamente com’erano. Addirittura il controllo esterno delle economie locali e nazionali aumentò, frutto di quel processo espansivo di globalizzazione che iniziò a dominare la scena mondiale a partire dalla seconda metà del secolo XX. Il blocco americano-europeo tirava le fila di questo processo, mosso unicamente da interessi e intenzioni occidentali a livello politico, economico e culturale.
L’idea di sviluppo non fu immune da questa dittatura ideologica: il pensiero unico occidentale. Fu completamente de-culturalizzato, reso innocuo dal punto di vista politico e incapace di una qualunque seria trasformazione sociale. Invece di riportare l’Africa a essere protagonista nella comunità politica, economica e sociale mondiale, questo modello di sviluppo, controllato dalla globalizzazione (una vera propria nuova forma di colonialismo), ha creato uno scollamento sempre più evidente tra l’Africa e il resto del mondo, sia dal punto di vista economico che sociale.
Le Chiese, cattolica, protestanti, pentecostali, locali, sono rimaste intrappolate in queste dinamiche. Oltre a esser state considerate come veri e propri emissari dell’Occidente durante il periodo coloniale, hanno mostrato un’egemonia finanziaria e morale, un’idea salvazionistica (il legare l’azione per lo sviluppo alla missione universale di salvare il mondo) e paternalistica (pensare e offrire soluzioni a problemi senza interpellare e coinvolgere coloro che i problemi li stavano vivendo). Tutto questo, a lungo andare, ha creato più problemi che non offerto vere soluzioni.
La critica del mondo che abbiamo
Per me, missionario cattolico europeo in Africa oggi, è evidente il fallimento sia del programma di sviluppo di Truman, semplice sintesi della supremazia ideologica occidentale, sia di una certa azione sociale delle Chiese. La Chiesa, universale e locale, si è lasciata addomesticare nella sua immaginazione profetica di un mondo diverso, alternativo, egalitario, di cui invece avrebbe dovuto essere la prima promotrice. Sempre più ha confuso la trasformazione della società verso l’ideale altissimo di una nuova umanità e di cieli nuovi e terra nuova, con il semplice sviluppo di alcune zone del continente e alcuni settori della società. Costruire una scuola o un dispensario può senz’altro cambiare la vita ad alcune persone, e la testimonianza del lavoro fatto dalle Chiese in Africa ne è la prova evidente. Ma purtroppo non tocca il problema a livello di sistema. José M. Castillo riassume questo punto molto bene: «Se non critichiamo il mondo che abbiamo né facciamo proposte su come il mondo dovrebbe essere – cioè, se le nostre vite e progetti non sono guidate da una ragione utopica e dalla corrispondente mentalità, modo di pensare e sentire – apparirà chiaro che siamo felici di quello che c’è, che siamo soddisfatti dell’ordine attuale… e quindi, logicamente, chi è soddisfatto di come stanno le cose non può produrre nessun tipo di cambiamento».
Il mondo post-coloniale e il nuovo concetto di «colonialità»
L’ordine mondiale attuale è quello che Sabelo Ndlovu-Gatsheni, professore all’università del Sud Africa, chiama «il mondo postcoloniale neocolonizzato» o «il sistema mondiale moderno/ coloniale, capitalista/patriarcale», seguendo la definizione del sociologo portoricano Ramón Grosfoguel. È un mondo dominato da quello che studiosi latinoamericani e africani definiscono come coloniality, colonialità. È la creazione e il mantenimento di relazioni asimmetriche di potere e conoscenza, è la rappresentazione univoca e unilaterale dell’altro, nel nostro caso dell’A – frica e degli africani, sempre come «mancante» di qualcosa: civilizzazione, anima, democrazia, diritti umani, libertà. È qui che nasce la classificazione sociale della popolazione umana secondo categorie artificiali della razza, di superiorità e inferiorità, di sviluppato e sottosviluppato, di primitivo e civilizzato, di tradizionale (tribale) e moderno (Ndlovu-Gatsheni). Il prodotto finale è stato, e ancora è, l’annullamento della soggettività africana, la distruzione delle culture ed epistemologie che non fossero quella occidentale, tecnicoscientifica, capitalista, cristiana.
Mi pare, quindi, che parlare di relazioni NordSud oggi sia altamente problematico, almeno per due motivi. Primo, perché la consapevolezza degli operatori per lo sviluppo di essere immersi in questo tipo di sistema mondiale, in questa «colonialità», è ancora gravemente insufficiente. Non si riesce a pensare, e ancor meno a creare, uno sviluppo diverso, fondato su relazioni diverse, che portino a un mondo alternativo. A mio giudizio (e lo dico con tanta umiltà e rispetto), i tantissimi movimenti civili per «un altro mondo possibile», pur dando un contributo notevole alla riflessione e al processo di coscientizzazione sulle sfide globali, non riescono a passare la soglia della critica contro. Manca ancora l’immaginazione creativa che possa portare alla costruzione di alternative concrete, capaci di invertire la rotta. Se ci sono, e credo onestamente che ci siano, rimangono ancora a livello locale, senza un vero impatto globale.
Il secondo motivo è che una divisione geografica Nord-Sud oggi non ha più senso. Non viviamo più in un mondo dove il Nord è ricco e il Sud è povero, e, in questa vecchia visione, ricco e povero hanno comunque solo una connotazione materiale, economica. La pervasività della colonialità tocca tutti indistintamente. La divisione è tra coloro che fruiscono delle relazioni asimmetriche di potere e coloro che ne sono vittime. Invece, si tratta più di una divisione epistemologica: nel contesto dove mi trovo, con che occhi guardo alla realtà, con quali categorie la analizzo e la giudico. Il pensiero unico occidentale impone un’unica visione che porta al concetto di sviluppo come «tenere il passo» dell’Occidente, «recuperare il terreno perduto», «diventare come noi», «raggiungere il nostro livello di sviluppo». È un pensiero che impone la crescita produttiva come unica via di sviluppo, nella falsa speranza che, in qualche modo, i benefici della crescita ricadranno necessariamente su tutti. Pensare di cambiare il sistema mantenendo i piedi e la testa nel sistema significa pensare di risolvere il problema di oggi usando gli stessi strumenti che l’hanno creato. Gli operatori di sviluppo, chiunque essi siano, rischiano di criticare gli interessi egemoni di oggi rimanendo però all’interno di relazioni ed epistemologie che sono nate proprio nello stesso contesto culturale che ha generato e genera quegli interessi.
A questo si aggiunge una certa difficoltà tra coloro che hanno usufruito fino a oggi dei successi del sistema (avanzamento tecnologico, miglioramento della qualità di vita con la vittoria definitiva sul problema della soddisfazione dei beni primari, risultati medici, ecc.). Ma proprio per questo, la svolta è epistemologica. Un conto è valutare la modernità, da cui è nata la supremazia occidentale (molto spesso imposta, come abbiamo visto più sopra), dal luogo epistemologico occidentale dove la modernità ha dato i suoi frutti di alfabetizzazione ed educazione di massa, diritti umani, uguaglianza, diritti delle donne, secolarizzazione. Un altro è giudicarla dai luoghi che sono stati e sono vittime del «lato più oscuro della modernità» (Mignolo): mercantilismo, colonialismo, tratta degli schiavi, cristianizzazione forzata, apartheid, neo-liberalismo, aggiustamenti strutturali, ecc. Le prospettive sono ben diverse.
L’esposizione diretta delle periferie
Allora, come se ne esce? Mi guardo bene dal proporre soluzioni che non possono nascere dalla buona volontà o illuminazione di un singolo. Condivido solo una convinzione, che si rafforza sempre più guardando al panorama sociale, culturale, politico ed economico di oggi, e a come gli occidentali ancora guardano all’altro africano e a come gli africani agognano al modello occidentale. La convinzione è che solo un’esposizione diretta alle periferie, ai margini del mondo di oggi, accompagnata da una seria riflessione critica, può cambiare la prospettiva sul mondo e innescare una nuova immaginazione per il futuro dell’umanità. Voglio citare qui un pensiero di papa Francesco che, insieme a tanti altri, mi pare abbia le idee chiare su questo punto: «Quando parlo di periferie, parlo di limiti. Normalmente, ci muoviamo in spazi che in qualche modo sono sotto il nostro controllo. Questo è il centro. Tuttavia, quando lasciamo il centro, vediamo la realtà in modo diverso. La realtà si vede meglio dalle periferie che dal centro. Posso avere un pensiero molto strutturato, ma quando mi confronto con qualcuno che è al di fuori di questo sistema di pensiero, in un modo o nell’altro sono costretto a cercare le ragioni del mio modo di pensare. Inizio a confrontarmi, sono arricchito dal modo di pensare dell’altro dalle periferie». Allora, è possibile pensare un’azione verso un altro mondo, alternativo a quello dominante di oggi, che parta davvero dagli ultimi, immaginata, pianificata e realizzata da loro, con gli altri solo come comparse che contribuiscono, a volte in modo necessario, solamente a rendere questo percorso praticabile? Sicuramente sì, e tante iniziative in questo senso lo dimostrano. Bisogna però cambiare la testa prima di cambiare la società. Bisogna riconoscersi complici di un sistema iniquo prima di criticarlo. Bisogna ritornare umili prima di suggerire un qualunque tipo di soluzione. Bisogna soprattutto inserire questa azione nel quadro delle restrizioni globali strutturali che dominano e bloccano ogni tentativo di trasformazione: renderle non solo azioni di sviluppo locale, ma anche di critica e trasformazione globale.
padre Stefano Giudici
missionario comboniano in Kenya,
responsabile del teologato internazionale dei comboniani, Nairobi