Noi credevamo
Noi credevamo attualizza cinematograficamente ciò che già il Principe di Salina aveva amaramente notato: il mondo dei gattopardi e dei leoni è stato sostituito dagli sciacalli e dalle iene. Non che questo aspetto sia prerogativa esclusivamente italiana: per rimanere in ambito cinematografico, molteplici sono i film americani che raccontano i tentativi dei Carpetbaggers del Nord di sfruttare la situazione a proprio vantaggio al termine della Guerra Civile, ma in Italia, si sa, l’arte della speculazione si cura con un’attenzione talmente scrupolosa da rappresentare un’eccellenza.
Il film di Mario Martone, pur guardando al passato, è una riflessione sulla contemporaneità, su cosa siamo diventati in un frattempo nel quale si sono bruciate aspettative e buone intenzioni. Un affresco sul Risorgimento italiano che parte da molto lontano, dagli iniziali ardori nazionalisti del 1828, e che, attraverso le storie di tre patrioti meridionali, percorre il margine della grande stagione dell’Unità, fino a giungere al 1862, a giochi ormai conclusi, per guardare negli occhi lo spettatore, interpellandolo direttamente, esortandolo a stilare i primi bilanci e le conseguenti, incipienti disillusioni. Così come nella miglior tradizione del romanzo ottocentesco italiano, la storia è riscritta adottando la prospettiva degli umili, di coloro che si illudono di concorrere alla realizzazione di un’idea in cui credono, ma dalla quale sono inevitabilmente sovrastati e di cui possono essere soltanto, nella migliore delle ipotesi, osservatori diretti, quando non addirittura vittime di trasformazioni che comprendono soltanto parzialmente.
Indicativamente, il film è focalizzato lungo un ventaglio di approcci che intendono fornire la varietà di attese e aspirazioni in funzione dell’evento storico cui si ambisce: quelle dei protagonisti Salvatore, Domenico e Angelo sono tre figure interconnesse ma profondamente differenti, distribuite lungo la scansione temporale (del film, della storia) per rivelare come l’evolversi delle vicende segua percorsi tortuosi e articolati, che vanno dallaànoi credevamo cieca e rispettosa obbedienza, alla critica indomita e disillusa, fino alla lacerante esaltazione alfieriana.
Noi credevamo, e non potrebbe essere altrimenti, non punta all’oleografia dell’obiettivo raggiunto, il suo è un inseguimento ansioso che giunge a un passo dalla meta e la osserva sfuggire, viscosamente, preda di un pessimismo che è storico per una rassegnazione già scritta, inevitabile per natura e opportunità concrete. Tutto il resto è un vano dibattersi che conduce a una sconfitta che è prima umana e solo successivamente storica e politica. Non c’è spazio per la celebrazione, messa in ellissi, ignorata perché lontana dalle esigenze e dalla visione del singolo individuo.
Non c’è spazio neanche per le figure degli eroi, solo per i martiri del pensiero, i convinti assertori dell’ideale, i missionari di una religione laica che conosce soltanto promesse fittizie di redenzione: Mazzini è un integralista dallo sguardo fisso e immutabile, Orsini una vittima di congiunture sfavorevoli, Garibaldi un’apparizione notturna impalpabile, molto lontana dal retrogusto messianico di 1860 di Alessandro Blasetti (1934) o dalla concretezza politica e militare di Viva l’Italia! di Roberto Rossellini (1961). Inoltre, laddove questi lavori offrivano, rispettivamente, una visione celebrativa funzionale al regime fascista (e infatti Blasetti, nel dopoguerra, sarà costretto a tagliarne cinque minuti ritenuti compromettenti) e una raffigurazione commemorativa (per i cento anni dell’Unità) in cui la spettacolarità della rievocazione storica si sposava con gli intenti divulgativi, Noi credevamo nega decisamente nei suoi meccanismi fondanti ogni ipotesi di creazione mitopoietica, giungendo a indagare la natura stessa della retorica risorgimentale e le modalità spesso casuali di fondazione e diffusione dell’epopea. Ciò a cui si approda è un film spogliato da ogni orpello, un oggetto nudo, rivestito soltanto dalla straordinaria trasparenza digitale delle immagini del direttore della fotografia Renato Berta.
Il film di Martone non è il primo a opporre una severa riflessione alla cieca apologia, basterebbe pensare soltanto a ciò che accadde negli anni settanta con una pellicola come Bronte – Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (Florestano Vancini, 1972), che si muoveva sullo stesso solco critico della novella Libertà di Giovanni Verga, oppure allo scorato senso di disillusa irreversibilità presente ne Il gattopardo (Luchino Visconti, 1963). Ma il disinganno di Visconti (e di Tomasi di Lampedusa) era frutto del cupio dissolvi di un’aristocrazia dello spirito ormai estranea al nuovo corso storico, quello di Martone è dato dall’amara consapevolezza che i semi del disfacimento odierno fossero già presenti in nuce nel momento della nascita della nazione.
«Qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse come era prima» riconosceva amaramente il Principe di Salina. Si sbagliava. La situazione è addirittura peggiorata.
Giampiero Frasca
docente di Storia e critica del cinema,
facoltà di lettere e filosofia,
università di Torino